PsicoArt – Rivista di arte e psicologia. Vol. 9 (2019)
ISSN 2038-6184

Euforia e malinconia della modernità

Sandra TeroniIndependent Researcher (Italy)

Sandra Teroni was University professor of French Literature and she is the author of various books and assays concerning writers of the 1800s and 1900s. Together with Graziella Magherini she has founded and directed the series “L’ascolto del testo” regarding Literature and Psychoanalysis (Nicomp 2007-2010). Among her works: L’idea e la forma. L’approdo di Sartre alla scrittura letteraria; La passione della democrazia. Julien Benda; Da una modernità all’altra. Tra Baudelaire e Sartre. She has also directed for the publishers Laterza a History of French Romance in the 1900s.

Pubblicato: 2019-07-31

Euphoria and melancholy of modernity

Abstract

Come punto di partenza si è scelta la data del 1856, anno della nascita di Freud e della pubblicazione de I fiori del male, seguito l’anno successivo da Madame Bovary. Baudelaire e Flaubert, come poi Rimbaud e Mallarmé, sono lucidamente coscienti della rottura che operano rispetto alla tradizione anche recente (romanticismo) e, nel proclamare la necessità di essere ‘moderni’, rivendicano la capacità di cambiare lo sguardo sulla realtà attraverso la trasfigurazione letteraria. Si apre lo spazio a inedite ricerche formali tese a dare forma – e quindi contenimento – a un vissuto di frammentazione. Queste poetiche improntate all’euforia si accompagnano infatti a una nuova tematizzazione delle problematiche della malinconia – smarrimento del soggetto, perdita dell’unità, naufragio del senso – che nel corso degli anni Trenta del Novecento saranno riformulate nei termini di Nausea e Assurdo (Céline, Lévinas, Sartre, Camus).
The starting point is the year of Freud’s birth, 1856, which was also the year in which Les Fleurs du Mal was published, followed by Madame Bovary. Baudelaire and Flaubert, Rimbaud and Mallarmé are clearly conscious of their breach with tradition, even of that with Romanticism. While they declare the need to be “modern”, they claim their ability to change our perspective of reality through literary creation. An unseen formal research comes about, giving form to an experience of fragmentation. In fact, these euphorically characterized lyrics go hand in hand with a new thematization of the problematics of melancholy – the crisis of the subject, the loss of unity, the breaking down of sense – which during the Thirty of the last century would be reworded as Nausea and Absurd (Céline, Lévinas, Sartre, Camus).

Keyword: French Literature; Baudelaire; Freud; Nausea; Absurd

L’articolo è stato corretto il 2019-10-14, vedere il relativo corrigendum: https://doi.org/10.6092/issn.2038-6184/9893

[…] molte cose, che in quanto reali non potrebbero procurare godimento, possono invece farlo nel giuoco della fantasia, e spesso un eccitamento per se stesso propriamente penoso può divenire, per l’uditore o lo spettatore del poeta, fonte di piacere.

– S. Freud, Il poeta e la fantasia

Modernità

Nel 1856 – anno della nascita di Freud – Baudelaire dà alla stampe I fiori del male, l’anno seguente Flaubert pubblica il suo primo grande romanzo Madame Bovary. Entrambe le opere vengono incriminate per oltraggio alla morale e giudicate dallo stesso tribunale, che condanna l’opera poetica alla soppressione di sei poesie mentre assolve il romanzo dall’accusa di apologia dell’adulterio in considerazione che questo è già sanzionato nel romanzo con il massimo della pena, la morte. Entrambi gli autori sono lucidamente coscienti della rottura che operano rispetto alla tradizione e rivendicano il carattere innovativo delle proprie creazioni.

Madame Bovary, ispirato a un fatto di cronaca – un argomento “piatto” e “triviale” che lo scrittore s’imponeva per disciplinare il proprio temperamento e la propria scrittura troppo propensi al lirismo – realizza l’ambizione di “un libro su nulla”,1 un libro il cui argomento fosse pressoché invisibile e che si reggesse sulla forza interna del suo stile. Un’ambizione complementare al rigetto del mondo: “[…] tutto quello che è vita mi ripugna, tutto quello che mi travolge e mi ci rituffa mi spaventa”, si legge in un’altra lettera del ‘solitario di Croisset’.2 La rinuncia a cambiare la realtà era risarcita dalla certezza di poter cambiare lo sguardo sulla realtà, non tanto e non soltanto attraverso l’oggetto della rappresentazione quanto piuttosto attraverso lo stile, identificato con una “chimica” attraverso cui far passare la realtà.

[…] Per l’uso affatto nuovo e personale che fece del passato remoto, del passato prossimo, del participio presente, di certi pronomi e di certe preposizioni, rinnovò la nostra visione delle cose quasi quanto Kant, con la sua dottrina delle categorie e della realtà del mondo esterno,

avrebbe poi dichiarato Proust.3

Anche Baudelaire, che già nei suoi scritti sull’arte delinea una prospettiva teorica della modernità, metteva al centro la necessità di riattivare lo sguardo: per cogliere il “meraviglioso” quotidiano e cittadino, e per percorrere la strada del grottesco, che consiste nel mostrare la bellezza nell’atto stesso di sfigurarla (vedi Daumier). Coniugava in sostanza il “moderno” con la “maniera” piuttosto che con l’attualità, e prospettava un metodo fondato metaforicamente su una “estrazione”, consistente nella trasformazione dei materiali moderni in eterni.4 È quanto fa il “pittore della vita moderna” nell’omonimo saggio – scritto tra la prima e la seconda edizione dei Fiori del male – ispirato all’opera di Constantin Guy, un cronista per immagini. Il pittore della vita moderna va alla scoperta del “nuovo” quale che sia ed è capace di cogliere “la bellezza particolare del male, il bello nell’orribile”.5 Con ciò proponendosi come soluzione di ricambio al romanticismo e come alternativa al realismo. In nome di un altro rapporto con il reale, insostituibile dato di partenza ma per essere superato dall’immaginazione, come aveva ben argomentato il Salon del 1859, che la proclama “regina delle facoltà” e insieme “regina del vero”, “positivamente apparentata con l’infinito”.6 L’arte moderna, l’arte baudelairiana, è trasmutazione del reale, indagine “sovrannaturale” (capacità già riconosciuta a Delacroix)7 che dà all’oggetto un senso più profondo. Come ha ben sintetizzato un grande studioso, Hugo Friedrich, Baudelaire, pur portando le stigmate del romanticismo, “con le idee marginali dei suoi maestri ha costruito un edificio di pensiero la cui facciata volgeva loro le spalle”.8

Quello del modo nuovo di guardare le cose e quindi di vedere ciò che si nasconde all’occhio volgare – ma anche alla consuetudine – è uno dei motivi forti e variamente declinato in questa fase della modernità: la perdita di potere reale nella vita sociale è compensata dotandosi di una facoltà irriducibilmente libera e illimitata; rivendicando un potere creativo alternativo all’ordine/disordine sociale, una capacità di produrre quel piacere particolare che è il piacere estetico, il quale non si esaurisce nel consumo immediato perché agisce nel profondo ed è apparentato con il perturbante.

Poetiche

“[…] J’ai de chaque chose extrait la quintessence / Tu m’as donné ta boue et j’en ai fait de l’or (Da ogni cosa ho estratto la quintessenza / Tu mi hai dato fango e io ne ho fatto oro)”. Con questi due celebri versi Baudelaire chiude un’apostrofe all’amata “capitale infame” nel progetto di Epilogo a una riedizione dei Fiori del male.9

Je veux être poète et je travaille à me rendre voyant […]. Il s’agit d’arri­ver à l’inconnu par le dérèglement de tous les sens (Voglio essere poeta e lavoro a rendermi veggente. Si tratta di arrivare all’ignoto attraverso lo sregolamento di tutti i sensi)” – è il programma che Rimbaud si prefiggeva nel maggio 1871, in piena Comune di Parigi.10 Pochi mesi dopo si presentava a Verlaine, che lo aveva chiamato nella capitale, leggendogli Il battello ebbro. Per inaugurare la nuova poetica del veggente, aveva scelto l’identificazione con un battello che, abbandonate le guide e gli ormeggi, si lascia trascinare dai flutti e vede l’Ignoto.

Je dis: une fleur! et, hors de l’oubli où ma voix relègue aucun contour, en tant que quelque chose d’autre que les calices sus, musicalement se lève, idée même et suave, l’absente de tous les bouquets (Dico: un fiore! E, fuori dall’oblio in cui la mia voce relega ogni contorno, come qualcosa d’altro dai calici risaputi, musicalmente sorge, idea stessa e soave, l’assente di ogni mazzo)” – rivendica orgogliosamente Mallarmé,11 il quale esaspera il divario tra la parola e la cosa, e decreta la supremazia dell’oggetto creato dalla parola poetica su quello reale. La creazione artistica e i valori formali si presentano come il solo mezzo di sottrazione alla banalità quotidiana, alla mercificazione, all’inautentico, il solo mezzo di salvazione dal disastro in un estremo tentativo di “abolir le Hasard”, abolire il caso (Un coup de dés).

Con Mallarmé, l’arte si vuole e diventa non solo autonoma bensì autoreferenziale: è una nuova “sacralizzazione”, come non avrebbe cessato di ripetere e analizzare Jean-Paul Sartre dopo il “risveglio” provocato dall’esito catastrofico di quella fase storica. Perché il rifiuto di farsi integrare dall’ideologia della borghesia trionfante si accompagnava a una identificazione con l’assenza e la negatività, a un culto estremo della solitudine fino alla proclamazione di una radicale alterità.

Lo sguardo cambia effettivamente, e produce un cambiamento di linguaggio e di scrittura: sparite lacrime e gemiti, i “violenti trasporti”, le nostalgie e i rimpianti, gli slanci religiosi, le rêveries di fronte a un tramonto all’orizzonte. Molte delle tematiche – solitudine, inquietudine, malinconia, estraneità – erano in effetti già presenti nella letteratura romantica, e anche in Rousseau. Ma totalmente diversa è l’espressione, il linguaggio, il tono: all’io lirico succede un io impersonale, alla rêverie la dichiarazione secca e provocatoria, l’autobiografismo è bandito come prostituzione, la natura maestosa nella sua bellezza e accoglienza è diventata sospetta – specchio dei propri fantasmi di dissoluzione o indifferente –, comunque non fa più da contraltare alla civiltà e spalanca le porte sul nulla, Dio è assente e il ritiro nel proprio io è diventato foriero di ulteriori minacce. Il mal du siècle – inteso come male dello stare al mondo, male di vivere – viene declinato come spleen che è esperienza dell’angoscia, noia metafisica, assurdo, nausea.

Euforia

L’euforia – intesa nelle sue implicazioni di esaltazione e fervore creativo – sta dunque innanzitutto nei programmi che la letteratura si dà e nei compiti che assume. Il poeta rivendica il privilegio di trasfigurare il bruto materiale emotivo in un oggetto d’arte finito, nonché di dar senso a un mondo che lo ha smarrito. E pone l’accento sul suo ‘lavoro’.

Scelta esistenziale del rifiuto e proclamazione di una alterità della creazione artistica nonché di un divorzio con il pubblico aprono lo spazio a inedite ricerche formali non riducibili a sperimentalismi. Segnalano invece – nella disarticolazione delle forme ereditate e nello smontaggio dei meccanismi così come nei procedimenti dell’intertestualità e della ripresa parodica – un’esigenza di dar voce dando forma, e quindi contenimento, a un vissuto di frammentazione e a un’inappagabile spinta verso ‘l’oltre’. Una sorta di riparazione simbolica. L’arte, coniugata con l’artificio, diventa un esercizio ascetico alla ricerca di quella ‘forma’ attraverso cui si realizza un miracoloso equilibrio fra libertà creativa e procedimenti che ne regolano l’espressione. È quanto avviene sempre con la creazione artistica, che a questa condizione può trasmettere a molti l’emozione di un singolo, esprimere quanto è socialmente censurato o rimosso, allargare l’orizzonte di senso, sollecitare un ascolto tendenzialmente inesauribile. In questo contesto storico diventa anche la via che permette di ristabilire una relazione con gli altri – quelli che Mallarmé chiama i “dissimili” –, una relazione disconosciuta e rifiutata. Spostandola su un terreno altro: quello del piacere estetico, quel “piacere preliminare” di cui parla Freud come di una via di accesso a un godimento maggiore che consiste nella liberazione di tensioni nella nostra psiche.12 A chiusura della poesia inaugurale dei Fiori del male, rivolgendosi al lettore, Baudelaire lo definisce al tempo stesso “mio simile, fratello mio” e “ipocrita”, nel senso appunto di non consapevole (Al lettore).

È la risposta orgogliosa ed euforica (onnipotente?) a un ordine borghese basato sul dominio del mercato e delle banche, del “dio dell’Utile” (Baudelaire, Amo il ricordo di quelle epoche nude); a un vissuto di fine delle illusioni nel processo rivoluzionario inaugurato nel secolo precedente, a uno smarrimento profondo, alla crisi dell’umanesimo e alla crisi della ragione, al fantasma di una noia che coincide con la perdita di senso.

Malinconia

Le Illusioni perdute è il titolo di un grande romanzo di Balzac pubblicato tra il 1837 e il 1843; ma la vera frattura è segnata dall’esito delle barricate del 1848. E non è solo Karl Marx a dirlo.13 Flaubert è altrettanto drastico quando scrive a George Sand: “La reazione del ’48 ha scavato un abisso tra le due France”, riferendosi alla propria generazione e a quella successiva.14 L’educazione sentimentale racconta la dissipazione di desideri e sogni di una generazione – tra la vigilia del 1848 e la fine degli anni Sessanta – nell’impatto con poteri economico-finanziari famelici, spregiudicati, insidiosi, con una società dominata da cinismo, opportunismo, perversioni.15 Un fallimento soggettivo che si accompagna a quello politico delle speranze suscitate dall’abbattimento della monarchia, i diritti sanciti dalla Costituzione, l’ideale di democrazia e giustizia sociale associato alla Repubblica. Tutto ugualmente travolto, soffocato, represso: con le armi prima, poi con il colpo di Stato di Luigi Napoleone Bonaparte (2 dicembre 1852), fino alla rovinosa guerra franco-prussiana. Ma anche un fallimento a cui concorrono una “malattia della volontà” (che torna d’attualità con Schopenhauer), una conflittualità interna, confuse pulsioni autodistruttive. Viene dunque a mancare anche ogni possibile compensazione nel rifugio in se stessi, nel ripiegamento sul proprio io, com’era per Rousseau e per i romantici (si pensi al René di Chateaubriand). Perché la perdita si accompagna alla duplice scoperta della scarsa consistenza dell’io, e del molteplice nella sua costituzione.

Crisi del soggetto

“Della vaporizzazione e della centralizzazione dell’Io. Sta tutto qui” (Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo. “Io è un altro” (Rimbaud, lettera a George Izambard, maggio 1871). “Quando dico io suona vuoto” (Sartre, La nausea).

Un filo si dipana tra la messa a punto baudelairiana di un vissuto di precaria consistenza dell’io, la proclamazione da parte di Rimbaud di un’alterità costitutiva, la constatazione di un vuoto che Sartre mette in bocca a Roquentin nel suo primo romanzo, sul finire degli anni Trenta quando il disincanto è diventato nausea. Passando per Freud, che sintetizza “L’Io non è padrone in casa propria” e parla della terza grande mortificazione inflitta all’amor proprio umano, di natura psicologica questa, dopo quella cosmologica (Copernico) e quella biologica (Darwin).16

Si dispiega, nell’arco di tempo di quasi un secolo, una letteratura dello smarrimento della meta e di un centro, per cui al vettore temporale si sostituisce la ripetizione, all’itinerario il vagare, metafora di un inquietante interrogativo sulla propria identità. Una letteratura della perdita dell’unità e del naufragio del senso. Una letteratura della malinconia, dunque, e dell’inquietudine, del vano inseguimento di un oggetto assente. A cominciare dal soggetto, l’io.

Ricorrenti figure forti del discorso letterario – come l’errante e lo straniero, il naufragio e l’impantanamento, la prigione, l’evasione e lo smarrimento, l’abisso, il relitto, la nausea – segnalano la persistenza e insieme la rielaborazione, talvolta con mutamento di segno, del lessico e delle figure in cui si dispiega, affondando le sue radici nel romanticismo, la problematica del soggetto, della sua consistenza, dell’essere nel tempo e nello spazio, dell’essere nel linguaggio, dell’esserci (il dasein o être-là). Mentre della formulazione baudelairiana, che nella sua definizione del moderno coniuga “il transitorio, il fuggitivo, il contingente” con “l’eterno e l’immutabile” (“La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile”), una metà si va perdendo, il transitorio non contiene più l’eterno e viene a identificarsi con l’Assurdo.

Evasione

La crisi del soggetto genera una spinta all’evasione che non è solo dalla “prigione” rappresentata da ogni dimora così come da ogni morale codificata, e a scegliere la “vita errante”,17 bensì uscita da se stessi. Come, ancora una volta, intuisce già Baudelaire quando risponde alla domanda “Che cos’è l’amore? Il bisogno di uscire da se stessi” (Il mio cuore messo a nudo). E come spiega il giovane Emmanuel Lévinas, in un suo affascinante saggio Dell’evasione (1935) che sviluppa il suo discorso proprio a partire dalla constatazione di un mutamento di sensibilità segnalato dalla letteratura contemporanea, e ne enfatizza la portata fino a parlare di un nuovo mal du siècle.18 L’analisi della struttura dell’evasione la fa coincidere con una conoscenza dell’essere dell’io che fa tutt’uno con il soffocamento e con il “bisogno di uscire da se stessi, cioè di spezzare l’incatenamento più radicale, il più irremissibile, il fatto che l’io è se stesso” (p. 17). La rivolta che accompagna l’esperienza dell’essere incatenati a se stessi è all’origine della nausea, situazione limite in cui sono esperiti insieme il pieno dell’esistenza e l’impossibilità di essere ciò che si è. Nel bisogno di evasione Lévinas vede “la più radicale condanna della filosofia dell’essere” (p. 14), fondata su una concezione dell’io come autosufficiente mutuata dall’immagine dell’essere offerta dalle cose. Propone invece una filosofia dell’esistenza, della contraddizione, della compresenza degli opposti. Ed è proprio questa filosofia che gli permetterà successivamente di sviluppare il suo pensiero nella direzione dell’incontro con l’Altro.

Nausea

Nel 1935, lo scavo di un tema letterario, usato in un ripensamento critico del pensiero heideggeriano, faceva da cerniera con l’area semantica della “nausea”, quella in cui si incontrano gli esasperati disgusti del Bardamu del Viaggio al termine della notte e le allucinate elucubrazioni del Roquentin della Nausea. Non a caso Lévinas rendeva un esplicito omaggio a Céline per avere “spogliato l’universo attraverso una meravigliosa arte del linguaggio, in un cinismo triste e drammatico” (p. 32). Attraverso la visione allucinata dell’antieroe céliniano, la realtà rivela la sua essenza. Ed è nausea: non un disturbo passeggero o intermittente, ma assunzione disgustata dell’essere. Il viaggio verso l’ignoto – che si tratti del Continente Nero (il ‘superato’ della civiltà europea) o del Nuovo Mondo (il suo futuro) – così come lo spostamento all’interno della propria notte ripropongono sempre lo stesso incatenamento a se stesso, a cui metterà fine, con la sua ricaduta nel silenzio, solo la fine del racconto: “non se ne parli più”.

In sintonia con la riflessione di Lévinas ma in una prospettiva diversa, orientata dall’esplorazione del campo aperto da Husserl, nel suo saggio sulla Teoria delle emozioni (1938), Sartre parla di evasione (il corsivo è suo) per ridefinire le emozioni come condotte irriflesse ma intenzionali finalizzate a eludere una difficoltà, una trasformazione magica del mondo, “una brusca caduta della coscienza nel magico”.19 Di evasione non si parla invece nel romanzo, a cui dopo varie esitazioni aveva dato il titolo di Melancholia, cambiato dall’editore in La nausea (1938). Antieroe anche lui, Roquentin vuole però “vederci chiaro” nell’inquietante malessere su cui si apre il suo diario e che lo motiva: si sofferma sui dettagli al fine di leggerli come indizi. E Sartre gli fa vivere l’avventura della conoscenza, conducendolo all’esperienza estrema della “nuda esistenza”, che è “contingenza”, ovvero mancanza di senso. Afferrato dalla gratuita presenza dell’essere e dai ritorni di nausea, Roquentin si dibatte fino alla brusca rivelazione che le due cose vanno insieme, che la Nausea è “l’accecante evidenza dell’essere” e che fa tutt’uno con se stesso. L’uscita da sé ha infine luogo, in “un’estasi orribile” di fronte alla radice di un castagno nel giardino pubblico di una città di provincia; ed è l’esatto contrario dell’euforica comunione con la natura perseguita ed esperita dai romantici: “Io ero la radice del castagno. O meglio io ero, tutt’intero, la coscienza della sua esistenza. Ancora staccato da essa – poiché ne avevo coscienza – e tuttavia perduto in essa, nient’altro che essa”. Vischiosa in Sartre, l’esistenza non inchioda (come per Lévinas) ma inghiotte: Roquentin si sente affogare in questa “enorme presenza […] tremendamente molle e densa, una mostarda […] ignobile marmellata […] abbraccio gelatinoso”. Evadere non è possibile, “l’esistenza è un pieno che l’uomo non può abbandonare”.20 E tuttavia Sartre postula un’ambiguità del soggetto che, mentre subisce la fascinazione dell’inerte e partecipa in qualche modo della sua natura, è al tempo stesso capace di autoriflessione. La coscienza, come ci dirà L’essere e il nulla, è “decompressione dell’essere”.

Estraneità

Se evadere da se stessi è impossibile, l’altra via che si profila è quella dell’estraneità, un’estraneità radicale assimilata all’indifferenza divina. Baudelaire la declina nei Fiori del male come nello Spleen di Parigi, in cui lo splendido poemetto in prosa collocato in apertura, Lo straniero, la assolutizza in una estraneità del poeta al mondo e a se stesso.

L’Étranger (1862)
- Qui aimes-tu le mieux, homme énigmatique, dis? ton père, ta mère, ta soeur ou ton frère?
- Je n’ai ni père, ni mère, ni soeur, ni frère.
- Tes amis?
- Vous vous servez là d’une parole dont le sens m’est resté jusqu’à ce jour inconnu.
- Ta patrie?
- J’ignore sous quelle latitude elle est située.
- La beauté?
- Je l’aimerais volontiers, déesse et immortelle.
- L’or?
- Je le hais comme vous haïssez Dieu.
- Eh! qu’aimes-tu donc, extraordinaire étranger ?
- J’aime les nuages… les nuages qui passent… là-bas… là-bas… les merveilleux nuages!21

Sin dal titolo, il poeta propone un ritratto impersonale, privo di ogni connotazione, disincarnato in un’anonima voce che, rispondendo alle domande di un altrettanto anonimo interlocutore, declina il suo rigetto del mondo. La sua estraneità è disinvestimento affettivo. La negazione ha preso il posto dell’amarezza; il destino subìto è diventato scelta, la solitudine è ribaltata in distacco; la patria, il paradiso, il passato perduto sono orgogliosamente rifiutati; l’unico oggetto d’amore dichiarato sono le nuvole che vanno, emblemi della lontananza, della metamorfosi, di un desiderio inappagabile. Lo straniero è l’erede del viaggiatore che dal suo periplo ha tratto un “amaro sapere”:

Le monde, monotone et petit, aujourd’hui,
Hier, demain, toujours, nous fait voir notre image:
Une oasis d’horreur dans un désert d’ennui!22

E le nuvole, emblemi di un desiderio di evasione che non ha meta ma è puro, lieve movimento ed erranza, sono anche emblemi di un desiderio di non consistenza. Lo sguardo rivolto al cielo, qui, non dice tanto la nostalgia di una patria perduta quanto il desiderio di non fissarsi su niente, di identificarsi con un’entità impalpabile che sorvoli il mondo (Elevazione); l’aspirazione a una leggerezza dell’essere spinta fino alla evaporazione.

Il linguaggio va già nella direzione del neutro, quella che Camus avrebbe percorso per realizzare il passaggio da una tematica dell’assurdo a un effetto di assurdo, nel romanzo dallo stesso titolo, Lo straniero (1942), che lo avrebbe consacrato scrittore e che sarebbe stato al cuore della sua trilogia dell’Assurdo.

“Oggi la mamma è morta. O forse ieri. Non lo so”. Questo l’incipit del romanzo: un io anche qui impersonale registra l’evento; l’estraneità è provocatoriamente esibita nei confronti della perdita dell’oggetto primario. L’indifferenza di Meursault, privo di passioni, di interessi, di ragioni, che si limita a rispondere alle domande e ad accondiscendere alle proposte altrui, guidato da una sorta di fatalità inarrestabile e totalmente gratuita, è tradotta e rafforzata dallo stile della narrazione: un tono rigorosamente neutro, un registro paratattico che giustappone frasi brevissime, spesso ridotte alla sola proposizione principale e in cui eventuali congiunzioni evocano l’addizione, la disgiunzione, la contrapposizione, in un martellante uso del tempo verbale del passato prossimo, una forma che spezza il verbo in due, cancellando così il carattere transitivo del verbo stesso e sottraendo la realtà al flusso della durata. Questo combinato tra narrato e forma della narrazione produce l’effetto di togliere senso a tutte le convenzioni che regolano la nostra vita sociale, anche il racconto e il romanzo.

Un mondo che si può spiegare quand’anche con cattive ragioni è un mondo familiare. Mentre invece, in un universo improvvisamente privo di illusioni e di luci, l’uomo si sente straniero. Questo esilio è senza appello perché privo dei ricordi di una patria perduta e della speranza di una terra promessa. Questo divorzio tra l’uomo e la vita, l’attore e la sua scena, è esattamente il senso dell’assurdo,

si legge nel saggio che accompagnava la stesura del romanzo, Il mito di Sisifo (1943). Con l’aggiunta che questo senso di assurdità è direttamente legato all’“aspirazione al nulla”.23

Alterità

La malinconia è uno scivoloso gradino sull’abisso di angosce persecutorie. La concezione sdoppiata dell’io comporta uno sguardo su di sé che blocca in una consapevolezza ironica, a svantaggio della volontà, della decisione, dell’azione. Come sa bene Baudelaire. Lui che teorizza che “L’artista è artista solo a condizione di essere doppio e di non ignorare nessuno dei fenomeni della sua doppia natura” (Dell’essenza del riso); lui, L’Héautontimorouménos, il persecutore perseguitato dalla “vorace Ironia” che lo abita e lo trasforma in miroir, specchio di sé; lui, visitato dal “Demone della perversione” (Il cattivo vetraio, Ammazziamo i poveri!).

Il presentimento di una violenza distruttiva e autodistruttiva si esprime in un immaginario popolato da inquietanti, inspiegabili, inammissibili intrusioni. Da Baudelaire e Dostoevskij, che fa del suo Uomo del sottosuolo (1864) il portavoce di una nuova coscienza dell’uomo moderno – una coscienza sofferta come malattia – e del suo Sosia (1866) l’incarnazione, estrema fino all’autodistruzione, del desiderio di “sfuggire a se stesso”, fino alla Metamorfosi di Kafka (1915), si assiste a varie declinazioni della consapevolezza che l’incontro con l’altra faccia è incontro con la faccia dell’altro, dell’altro che io sono ma che è anche altro da me, e che mi minaccia di sopraffazione. Nel giro di pochi decenni prende corpo una galleria di indimenticabili figure; basterà ricordare qualche titolo: Lo strano caso del dottor Jekill e del signor Hyde (Stevenson, 1886), Horla (Maupassant, 1887), Dracula (Bram Stocker, 1897), Il giro di vite (James, 1898).

Lo sdoppiamento e il conflitto assumono la forma della contesa di un territorio, di una impossibile convivenza. Il caso più estremo e sconcertante è rappresentato da Céline, che in veri e propri pamphlet – dove saltano le architetture e i filtri che sono all’opera nella creazione romanzesca – farà dell’ebreo l’iperbolica figura dello straniero. Non più incarnata in personaggi e storie, l’insostenibile presenza dell’Altro si esprime come ossessione paranoica. L’ebreo diventa l’incarnazione di tutti gli spauracchi della modernità, della civiltà di massa e della decadenza del mondo, la personificazione del male, il demone a cui tutto è ricondotto, il bersaglio a cui il discorso continuamente mira sviluppandosi per cerchi concentrici: bolge infernali popolate da un ininterrotto proliferare di allucinazioni.

Il Male

È il drammatico approdo di quell’antropologia negativa che, sovvertendo la grande idea illuministico-romantica della bontà della natura umana, aveva trovato la sua più efficace espressione sempre in Baudelaire.

Quel che è nobile e bello è frutto della ragione e del calcolo. Il crimine, di cui l’animale umano ha attinto il gusto già nel ventre di sua madre, è originariamente naturale. […] Il male si fa senza sforzo, naturalmente, per fatalità; il bene è sempre prodotto di un’arte,

si legge nel Pittore della vita moderna,24 un’anticipazione delle pagine freudiane sulla “tendenza innata nell’uomo al male, all’aggressione, alla distruzione e perciò anche alla crudeltà”.25 Un’anticipazione anche dell’universo romanzesco di Céline, il quale riconobbe in Freud “il grande maestro di tutti noi”.26

Nel Viaggio al termine della notte (1932), la forte coesione ideologica è imperniata su una fondamentale ‘verità’, variamente modulata, che trova la sua espressione estremizzata nell’immagine della natura umana come “marciume in sospeso”.27 Il vissuto esistenziale della disgregazione che minaccia l’uomo dal suo interno (già annotato su un taccuino, datato novembre-dicembre 1913, durante il servizio militare per il quale era partito volontario)28 diventa visione del mondo e si cristallizza in questo primo romanzo, dove trova, in una forma che ancora la contiene, la sua espressione più compiuta, destinata a diventare paradigmatica. Dentro una densa strutturazione in cui nulla è lasciato al caso, fino al ritorno dei personaggi, ai richiami linguistici, ai movimenti che ora dilatano ora contraggono il respiro, trovano accoglimento contenuti esplosivi: un vissuto persecutorio del Tempo; una pervasiva presenza della morte sotto forma di erosione, deliquescenza, marcescenza; una incapacità di tenuta della materia che si sfascia, dei corpi che si ammalano, delle menti che si perdono; una coazione ad andarsene, a fuggire, a rifugiarsi per poi scappare di nuovo; una insostenibile diarrea dell’essere, una gran voglia di uccidere e farsi uccidere; una irrefrenabile spinta a distruggere e a farsi distruggere; una visione del mondo al cui centro sta la pulsione di morte.

Trova accoglimento anche il delirio: quello, denunciato come criminale insensatezza, della retorica patriottarda e dell’“isteria della pace”, dei coloni e degli sfruttatori; e quello esplicitamente assunto come rifugio e antidoto, possibilità di sottrarsi alla “verità della morte” perché permette di “far danzare la vita”. E in qualche modo assunto dal personaggio narrante il cui sguardo è lo sguardo di un marginale, straniato anche rispetto alle proprie azioni. La sua voce, sovvertendo le convenzioni e le regole di una lingua scritta codificata dalla tradizione, difesa dall’Accademia, trasmessa dalla scuola, riproduce quella forza eccentrica che trascina uomini e cose, quella difficoltà di tenuta e di durata che costituiscono una delle rivelazioni sulla natura dell’essere attribuite a Bardamu. Ma lo fa operando un mutamento di segno grazie alla trasposizione in un movimento interno, che trasforma descrizioni puntuali in visioni allucinate, allegoria, sogno liberatorio o incubo; creando un ritmo che costituisce l’inconfondibile cifra stilistica di Céline. Il riscatto è, ancora una volta, affidato alla creazione artistica – e il sostantivo ha tutta la sua pregnanza di creazione del nuovo.

Per un’altra modernità

La difficoltà a elaborare il lutto, ad andare oltre il rifiuto, oltre la contemplazione desolata, apriva la strada a esiti diversi e imprevisti. Sartre e Camus, forse, lo presentirono. La radicalizzazione del sentimento metafisico di estraneità nei loro rispettivi primi romanzi rappresentò anche un tentativo di andare oltre l’estraneità, il rigetto, il vuoto, un’operazione necessaria su cui fondare la libertà del soggetto e la sua responsabilità. E comunque, sul finire degli anni Trenta, entrambi progettavano una tappa ulteriore. Sartre, nel settembre 1939, partiva verso la guerra portando con sé il manoscritto di quello che doveva essere il primo volume dei “Cammini della libertà”, a cui aveva già dato il significativo titolo L’età della ragione e in cui si proponeva di raccontare come Roquentin (il personaggio inizialmente doveva essere lo stesso), messo a confronto con un catastrofico evento mondiale, avrebbe scoperto la libertà, e con la libertà la responsabilità e l’azione. Camus, terminato nel febbraio del 1941 il trittico dell’Assurdo, progettava quello della Rivolta; e fin dall’anno precedente aveva iniziato La peste, che certo è metafora dell’insensatezza con cui coincide il senso dell’esistenza, ma anche appuntamento con la storia e con la necessità della scelta, tra gli uomini, per salvare la vita di altri uomini, simili o dissimili. L’orrore suscitato dalle capacità di­struttive dell’uomo e l’esperienza di una dimensione comunitaria nella sofferenza, nella resistenza e nell’azione riproponevano in termini traumatici e concreti la necessità di uscire dall’“epoca del disincanto” (Max Weber).

Nell’immediato dopoguerra Sartre irrompeva sulla scena pubblica con un programma per “i tempi moderni”, come suona il titolo della rivista creata con un consistente gruppo di scrittori e intellettuali, espressione di una coscienza diffusa o quanto meno di un sentimento dominante. Gli obiettivi erano ambiziosi e di grande respiro: concorrere a cambiare la società riscoprendo la funzione sociale della letteratura, contribuire a un’“antropologia sintetica”, vale a dire fondata sull’uomo come totalità non scomponibile, salvare la letteratura da ogni forma di alienazione. Il compito che Sartre esplicitamente assumeva era una ridefinizione del moderno a partire da un’elaborazione teorica e da una pratica in cui il rapporto con la storia diventa consustanzia­le allo statuto dello scrittore; e l’engagement non è più una mobilitazione in casi di emergenza. Fin dal primo grande saggio filosofico, L’essere e il nulla (1943), prospettava anche una psicanalisi esistenziale fondata sulla teoria della malafede e dell’intenzionalità o “progetto”, per confutare l’ipotesi freudiana dell’inconscio e del represso, sospetta di determinismo. Poi avviava un estenuante confronto con quelle generazioni di artisti e scrittori che nel proclamarsi moderni avevano decretato il loro esilio dal mondo e la separatezza dell’Arte, una ideologia funzionale alla divisione sociale del lavoro. La rilettura critica, funzionale a un processo di separazione, prese il via con i saggi su Baudelaire, Mallarmé, Flaubert,29 per approdare ben presto a quella spietata autoanalisi attorno a cui si articola il racconto autobiografico Le parole.

Il cambiamento di rotta fu tutt’altro che definitivo: solo una parentesi durata un trentennio, fino al delinearsi di una nuova mitologia della modernità – o postmodernità – sbarazzata da dubbi, interrogativi e crisi spazzati via da un nuovo Ottantanove, quello del crollo del muro di Berlino e della proclamazione della fine delle ideologie. Quando la richiesta di senso sarebbe stata tacitata dalla costruzione del consenso, e la crisi del soggetto occultata dalla coazione a un narcisismo tanto esuberante quanto impoverito. E quando la cultura – da ribelle prima, poi responsabile – sarebbe diventata “remissiva” (Zygmunt Bauman).

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  1. Lettera a Louise Colet [16 gennaio 1852]. In Flaubert (1980, p. 31); trad. it. in Flaubert (2006, p. 122).

  2. Lettera a Louise Colet [20 dicembre 1846]. In Flaubert (1973, p. 420); trad. it. in Flaubert (2006, p. 61).

  3. Proust (1999; trad. it. pp. 312-331).

  4. Baudelaire (1961a, pp. 544-574); trad. it. in Baudelaire (1981, pp. 994-1013).

  5. Baudelaire (1961). Le peintre de la vie moderne, in Œuvres complètes, pp. 1152-1192; trad. it. Il pittore della vita moderna, in Baudelaire (1994, pp. 140-141).

  6. Baudelaire (1961c, pp. 1040-1045); trad. it. in Baudelaire (1981, pp. 222-225).

  7. Baudelaire (1961b, pp. 885-900); trad. it. in Baudelaire (1981, pp. 64-77).

  8. Friedrich (2016).

  9. Baudelaire (1961, pp.179-180) [N.d.A. traduzione mia].

  10. Lettere a Georges Izambard e a Paul Demeny. In Rimbaud (1991, pp. 345-351; trad. it. pp. 332-335 e 140-149).

  11. Mallarmé (1945, p. 857) [N.d.A. traduzione mia].

  12. Freud (1907, p. 383).

  13. Marx (2015).

  14. Lettera a George Sand [15 dicembre 1866]. In Flaubert (1991, p. 579) [N.d.A. traduzione mia].

  15. Flaubert (1952).

  16. Freud (1915-17, p. 446).

  17. Maupassant (1890). È questo il titolo di un racconto di viaggi di Guy de Maupassant.

  18. Lévinas (1982, p. 70); trad. it. in Lévinas (2008, p. 14). [N.d.A. Le pagine indicate fra parentesi nel testo rinviano a questa edizione].

  19. Sartre (1995).

  20. Sartre (1981, pp. 150-160); trad. it. in Sartre (1972, pp. 193-205).

  21. Baudelaire (1989): “Dimmi, enigmatico uomo, chi ami di più, tu? tuo padre, tua madre, tua sorella o tuo fratello? / Non ho né padre, né madre, né sorella né fratello. / I tuoi amici? / Usate una parola il cui senso mi è rimasto fino ad oggi sconosciuto. / La patria? / Non so sotto quale latitudine sii trovi. / La bellezza? / L’amerei volentieri, ma dea e immortale. / L’oro? / Lo odio come voi odiate Dio. / Ma allora che cosa ami, meraviglioso straniero? / Amo le nuvole… le nuvole che passano… laggiù… Le meravigliose nuvole!”.

  22. Baudelaire (2003, pp. 278-279): “Ma è un sapere amaro quel che si trae dai viaggi! / Il mondo è eguale e piccolo, così in tutte le ore / oggi, ieri, domani, rinvia la nostra immagine: / nel deserto di noia un’oasi di orrore!”.

  23. Camus (1965, p. 101); trad. it. in Camus (1996, p. 207).

  24. Baudelaire (1994, pp. 126-127).

  25. Freud (1929, p. 607).

  26. Cfr. l’intervista dell’ottobre 1933. In Cahiers Céline 1. Paris: Gallimard, 1976.

  27. Céline (1981, p. 505); trad. it. in Céline (2002, p. 553).

  28. Céline (1970).

  29. Sartre (1947). Del saggio su Flaubert, già annunciato nel 1943, sarebbero usciti due volumi col titolo L’Idiot de la famille: Sartre (1971-1972). Quello su Mallarmé sarebbe stato pubblicato postumo: Sartre (1986).