PsicoArt – Rivista di arte e psicologia. Vol. 9 (2019)
ISSN 2038-6184

“Attorno alla scultura, attorno allo scultore”: excursus sulla pelle nelle opere di Giuseppe Penone

Arturo MonettiIndependent Researcher (Italy)

Arturo Monetti was born in Milan in 1993. Master in Visual Arts with a dissertation on Semiotics of Art entitled Around the skin: a network of images between modern and contemporary. At the beginning of his artistic practice he focused his research on the relationship between body and environment, organic and inorganic matter. “Extensa” (2019) is his first solo exhibition, presented at the Galleria B4, Bologna.

Pubblicato: 2019-07-31

“About the sculpture, about the sculptor”: the role of skin in Giuseppe Penone’s works

Abstract

L’articolo propone una lettura di alcune opere significative di Giuseppe Penone a partire da un tema cardine della sua pratica scultorea: la pelle. Esse vengono poste in risonanza con il saggio di Didier Anzieu, L’Io-pelle in cui si viene a specificare il ruolo fondamentale della pelle nell’essere umano, in particolare nella formazione di un Io (interfaccia soggetto-mondo circostante) e in cui si accenna all’idea di una “pelle creatrice” ripensata più di recente da Stéphane Dumas come paradigma della creazione artistica.
The article offers a reading of some significant works by Giuseppe Penone starting from a key theme of his scultural practice: the skin. These works are connected with Didier Anzieu’s essay, The Skin-Ego in which is specified the fundamental role of the skin in the human being, in particular in the formation of an ego – filter and interface between the subject and his milieu – and in which he suggests the idea of a “creative skin” recently resumed by Stéphane Dumas as a paradigm of artistic creation.

Keyword: Giuseppe Penone; Didier Anzieu; pelle; psicoanalisi; arte

Per quanto scaviamo, dottore, siamo sempre… ectoderma
– Paul Valéry, L’idea fissa

Introduzione

Il nostro rapporto con il mondo prende spesso la forma di un’epidermide. Attraversando in profondità un giardino o una foresta, per esempio, la nostra pelle è posta immediatamente a contatto con l’ambiente vegetale che ci attornia; la profondità nella quale ci siamo immersi si presenta subito come un effetto di affioramento sulla nostra superficie corporea. Vi è dunque una conoscenza intima per immersione, mediante un’esperienza sensibile dello spazio in cui ci si trova calati, come in un “bagno di segni della natura”. Nel suo saggio I cinque sensi, Michel Serres pone l’attenzione sulla pelle come ambiente, come milieu.1 Il filosofo francese afferma che una delle caratteristiche dell’involucro tattile è quella di essere una sorta di “tela di fondo” dell’intersensorialità, un sensorium commune,2 dove i diversi sensi sono alloggiati e si mescolano. Nell’analisi di Le Jardin di Pierre Bonnard, Serres afferma di non potersi decidere se vedere in questa tela “il tessuto delle cose stesse o l’epidermide staccata di Pierre Bonnard”.3 Ipotizza che il pittore francese si sia letteralmente levato la pelle delle sue impressioni per poi averle riportate sulla tela, con la lucidità necessaria per compiere questo gesto, allo stesso tempo violento e creatore.

L’incessante e sempre variata interrogazione plastica dei materiali nell’indagine di Giuseppe Penone pone come oggetto di ricerca principale l’epidermide come operatore d’accesso e conoscenza al mondo circostante, avvicinandosi, per certi aspetti, alle osservazioni di Serres sul dipinto di Bonnard. Già dagli esordi, la sua analisi si rivolge al rapporto tra uomo e natura e si gioca sul limite tra azione umana – che grazie al suo orientamento particolare e al suo intento archeologico si risemantizza in azione artistica – e “metabolismo naturale”, processi organici, crescita biologica. La sua ricerca si sviluppa sul confine tra forme naturali e quelle prodotte dall’uomo nel punto in cui il dato, il grezzo incontra la forma pensata e raffinata. La dimensione estetica del suo lavoro si situa dunque dove s’incontrano l’uomo e l’ambiente, sul confine chiasmatico e pellicolare del loro scambio. Questo confine è sia un confine umano che un confine naturale: è proprio il sentire dell’uomo (la sensazione, l’aisthesis) a metterlo in contatto con un fuori, l’ambiente, che si presenta continuativamente ripiegato come interiorità del corpo. Questo sentire l’esteriorità e i suoi elementi muta con il tempo che le è proprio (“Ogni stagione dà una pelle al legno, ogni legno ricorda le stagioni, ricorda il nord piantato nel suo corpo, ricorda l’ombra di chi gli sta vicino”)4 e noi mutiamo imprescindibilmente con essa. L’artista si inserisce in questo processo di mutazione incessante creando le proprie opere in simbiosi con esso, apportando piccoli interventi in grado di suggerire tale legame primordiale, di coappartenenza originaria.

Penone sembra determinato a ricollocare e reintegrare l’essere umano all’interno di un ambiente primigenio nell’epoca del distacco dalla natura e della sua razionalizzazione che la riduce a mera risorsa di consumo: l’uomo – ci insegna l’artista – non lavora contro la natura, non la sfrutta; egli lavora con essa, la rispetta e se ne cura esprimendola. Il suo rapporto è dunque di tipo emozionale, patetico, prevedendo sempre una dimensione intima dove il gesto umano – alcune tra le prime opere sono documentazioni di performance – è integrato armoniosamente nel contesto dal quale proviene.

In tal modo, la natura viene vista come processo in sé: le sedimentazioni del terreno, le stratificazioni della pietra e della corteccia, sono il divenire stesso della natura in una sorta di ciclo in cui l’uomo è incluso (“L’uomo non è spettatore o attore ma semplicemente natura”)5 grazie alla sua capacità di inscriver-si e scriver-la, cioè di farsi processo lui stesso. L’artista infatti afferma: “La volontà di un rapporto paritario tra la mia persona e le cose è l’origine del mio lavoro”;6 ed è proprio questo il ciclo in cui, mutualmente, la terra esprime l’uomo e l’uomo la terra.

Il rapporto uomo-ambiente, in cui la pelle funge da interruttore (separatore/connettore) o filtro, si lega necessariamente a una ciclicità temporale che risulta essere una costante nell’indagine di Penone: alcuni elementi naturali, per esempio, vengono osservati attraverso la coppia di stati solido/fluido. Come spiega l’artista, la differenza che intercorre tra questi due termini, dipende dalla percezione che abbiamo del tempo nella nostra esistenza: decentrando il punto di vista e “mettendosi nella pelle” di ciò che ci sta intorno, ci si accorge di come, ad esempio, l’albero e il marmo, possano assumere anch’essi una certa flessibilità ed essere osservati come sostanze fluide. Questa convinzione anima una delle opere giovanili dell’artista, Continuerà a crescere tranne in quel punto del 1968, in cui il tocco della sua mano riprodotta in bronzo interviene sulla struttura legnosa dell’albero in modo tale da creare un fermaglio, un punto di non-crescita nel suo incedere vigoroso, smascherandone la fluidità plastica.

Fig. 1 – Giuseppe Penone, Alpi Marittime. Continuerà a crescere tranne in quel punto, 1968, albero, acciaio, Bosco sulle Alpi Marittime, Garessio.
Fig. 1 – Giuseppe Penone, Alpi Marittime. Continuerà a crescere tranne in quel punto, 1968, albero, acciaio, Bosco sulle Alpi Marittime, Garessio.

In questa sempre rinnovata meraviglia per il naturale ritorna l’atteggiamento intuitivo, osservatore del fanciullo che non ha perso lo spirito delle domande elementari e che ha un rapporto disinteressato ma, allo stesso tempo, di “serio gioco” con il suo ambiente, vedendo in esso un laboratorio in cui potersi misurare e cercare la sua dimensione, come in La mia altezza, la lunghezza delle mia braccia, il mio spessore in un ruscello del 1968.

Fig. 2 – Giuseppe Penone, Alpi Marittime. La mia altezza, la lunghezza delle mie braccia, il mio spessore in un ruscello, 1968, vasca in cemento, acqua, Bosco sulle Alpi Marittime, Garessio.
Fig. 2 – Giuseppe Penone, Alpi Marittime. La mia altezza, la lunghezza delle mie braccia, il mio spessore in un ruscello, 1968, vasca in cemento, acqua, Bosco sulle Alpi Marittime, Garessio.

Questa fascinazione non manca mai di suggerirci la sua dimensione erotica – Freud definiva la pelle, “che in particolari luoghi del corpo si è differenziata in organi di senso, e si è modificata in mucosa […] zona erogena per eccellenza”,7 indicandoci con ciò che lo spazio della sua tessitura è il ricettacolo degli stimoli e dell’eccitamento prodotti attraverso un contatto – un’intimità profonda e vissuta dell’ambiente (L’albero ricorderà il contatto, 1968) dove l’uomo si fa abitante mantenendo una consuetudine in un determinato luogo: ascoltare, esperire, osservare, conoscere.

Fig. 3 – Giuseppe Penone, Alpi Marittime. L’albero ricorderà il contatto, 16-20 dicembre 1968, azione dell’artista, chiodi, filo di ferro, albero, Bosco sulle Alpi Marittime.
Fig. 3 – Giuseppe Penone, Alpi Marittime. L’albero ricorderà il contatto, 16-20 dicembre 1968, azione dell’artista, chiodi, filo di ferro, albero, Bosco sulle Alpi Marittime.

Perdersi è allora il primo modus operandi della prassi artistica (“il sentiero scomparso è quello da percorrere”):8 l’azione implica un’immersione, una “conoscenza per contatto”9 nel momento in cui lo stesso soggetto perde i suoi limiti nell’ambiente circostante e vive uno stato di connessione e abbandono – un “sentimento oceanico”10 –, come restituito alle cose; in questo si ripresenta il fantasma primordiale di una pelle comune con le cose stesse che permette l’instaurarsi di un grado di più alta affinità tra i regni vegetale, animale e minerale.

Fare la pelle

“Pelle-limite o pelle-tasca, pelle-divisione o pelle-immersione, pelle cieca o pelle che decifra le forme – tutti questi motivi percorrono instancabilmente il lavoro dell’artista”.11 Quale più naturale somiglianza tra lo sfogliarsi naturale delle cose e il continuo rigenerarsi della pelle umana? La pelle si pone certamente al centro della pratica di Penone12 e raccoglie alcuni elementi del suo pensare l’arte: l’unità originaria tra soggetto percipiente e il percepito,13 il mondo naturale, il divenire temporale, il sogno di una non discontinuità tra il proprio corpo e il mondo circostante. La pelle viene vista dunque come un processo, come qualcosa che si rinnova continuamente; talvolta come un indice, un resto, una traccia del tempo trascorso. Non a caso Didi-Huberman, per evidenziare questa dimensione processuale, mostra come Penone preferisca scegliere per i titoli le forme verbali a quelle nominali.14 Lo stesso corpo umano, di cui la pelle è involucro, è un processo di rigenerazione continua: “I corpi vivono nel tempo e vengono segnati dal decadimento fisico. Il tempo è marcato nei corpi e tutti i corpi segnano il tempo”.15 La pelle permette una certa leggibilità del tempo nei corpi e diviene uno strumento di indagine sul visibile: la funzione del tatto è estremamente intrecciata, come mostra il famoso chiasmo merleau-pontiano, con quella del vedere. C’è una sorta di parentela stretta tra i due sensi. Sorge dunque spontanea la domanda: la pelle può in qualche modo “vedere”? Essa forse vede in maniera opaca, attraverso una mano che tocca, tasta, accarezza; vede discretamente tocco per tocco e non in un’unica presa sintetica come l’occhio. Quest’ultimo non è che un senso localizzato, un organo specializzato e alloggiato nel tessuto epiteliale: esso è una sorta di pelle la cui trasparenza permette una diversa permeabilità alla luce. Con un ribaltamento caro a Penone potremmo invertire i termini, e immaginare che l’occhio sia anch’esso in contatto e tocchi, come fosse un polpastrello, la realtà esterna.

Un’opera che senz’altro è riuscita a mettere in evidenza questo scambio tra toccare e vedere è Rovesciare i propri occhi del 1970.

Fig. 4 – Giuseppe Penone, Rovesciare i propri occhi, 1970, azione dell’artista, lenti a contatto specchianti, Torino, © Paolo Mussat Sartor.
Fig. 4 – Giuseppe Penone, Rovesciare i propri occhi, 1970, azione dell’artista, lenti a contatto specchianti, Torino, © Paolo Mussat Sartor.

Si tratta di una performance nella quale l’artista indossa lenti a contatto specchianti che hanno la capacità di raccogliere nei suoi occhi tutti gli elementi del paesaggio in cui si trova, facendo in modo che il mondo intero si possa rovesciare, secondo una legge di reciprocità. Come dice l’autore stesso, tali lenti lo rendono cieco, pur rappresentando la soglia liminale tra lui e il mondo, lo sguardo e il visibile. Egli stesso le definisce “come una pelle”:16

Le lenti a contatto specchianti coprono l’iride e la pupilla, indossandole mi rendono cieco. Poste sull’occhio, indicano il punto di divisione, di separazione da ciò che mi circonda. Sono come la pelle un elemento di confine, l’interruzione di un canale di informazione che usa come medium la luce. La loro caratteristica specchiante fa sì che l’informazione giunta al mio occhio venga riflessa".17

L’occhio, a cui la lente opaca nega ogni trasparenza, pone il corpo nelle condizioni di vedere il mondo discretamente, a tratti, a tastoni, nel concatenamento di sensazioni che provengono dal profondo, dall’interiorità a contatto con le cose e non in una presa d’insieme permessa dalla vista. Rivolgendo lo sguardo verso la propria interiorità fisica Penone fa di sé nel medesimo tempo un oracolo e un cieco:

Gli occhi coperti dalle lenti a contatto specchianti riflettono nello spazio le immagini che colgono con i movimenti abituali dell’osservatore. Si dilaziona nel tempo la facoltà di vedere e si affida all’incerto esito della registrazione fotografica la possibilità di vedere nel futuro le immagini raccolte negli occhi del passato.18

Sulla scia di Rovesciare i propri occhi, Palpebre 1989-1991, sembra chiedersi come sia possibile un “vedere attraverso le palpebre chiuse”19 – domanda che sembra riemergere più volte nel lavoro di Penone:

Ho messo una specie di gelatina sulla palpebra, l’ho tolta e ho proiettato l’immagine ricavata. Dove la gelatina era più spessa si creava una zona d’ombra, dove era più trasparente una zona di luce. Si produceva una “mappa” della pelle della palpebra, che è il punto di chiusura, come le lenti a contatto, della vista.20

La palpebra, questa sorta di pellicola che difende l’occhio nella sua sede, viene vista come una sorta di lente a contatto naturale ed è il punto di cesura che “separa il tatto dalla vista”.21 Essa è una sorta di mappa visualizzabile.

Fig. 5 – Giuseppe Penone, Palpebra, 1989, carboncino su tela preparata in acrilico, Centre Georges Pompidou.
Fig. 5 – Giuseppe Penone, Palpebra, 1989, carboncino su tela preparata in acrilico, Centre Georges Pompidou.

La palpebra è una membrana translucida che in parte cede il passaggio alla luce, sorta di pelle che si sovrappone a quella pelle trasparente e sensibile che è l’occhio:

Con gli occhi chiusi, il contatto con il mondo è limitato all’involucro. Con gli occhi aperti, l’identità del nostro involucro giunge fin dove siamo in grado di vedere.22

Nell’opera Guanto del 1972, invece, l’artista propone una fotografia in cui vengono mostrati i palmi delle sue mani, uno accanto all’altro.

Fig. 6 – Giuseppe Penone, Guanto, 1972, guanto in lattice, © Paolo Mussa Sartor.
Fig. 6 – Giuseppe Penone, Guanto, 1972, guanto in lattice, © Paolo Mussa Sartor.

Lo scultore ha realizzato un modello della sua mano sinistra, improntandola su una sottilissima membrana in lattice. Una volta rivoltata come un guanto, essa è indossata dalla mano destra. Quest’ultima dunque indossa il negativo della mano di cui è stato eseguito un calco: “l’epidermide improntata, sorta di simulacro della mano sinistra proiettato sulla mano destra, trasforma quest’ultima in scultura”.23 La mano, che a livello simbolico è una sorta di utensile naturale dello scultore, invece di mostrarsi come tale, diventa il supporto privilegiato dell’opera stessa. La mano sinistra si mostra nella semplicità della sua texture e la mano destra invece mostra il contatto con questa, la “materializzazione dell’essere toccata”.24 Merleau-Ponty in Fenomenologia della percezione, opera giunta in Italia negli anni ’60, teorizza questa riflessività del senso del tatto.25 Toccando la mia mano, infatti, sento la mia mano toccare e sento l’altra mia mano essere toccata. Prima di lui, già Freud aveva rimarcato tale particolarità.26 Con Guanto Penone tenta di accogliere “il toccare” nel campo del visibile, creando una “figura del tatto”:27

Congiungendo le mani, i segni della pelle della mano destra si incastrarono nei segni della pelle che copriva la mano sinistra. Lo stato di completa adesione senza intercapedini di vuoto, mi dava la sensazione di avere le mani lisce, senza linee digitali, senza segni. Le mani, sprofondate una dentro l’altra, erano un corpo unico ed il pensiero di distinguerle era inverosimile, non meno innaturale che pensare di staccare una narice dall’altra. La mano destra nel suo agire, tastare, toccare, aveva creato il negativo della sua pelle che la mano sinistra nel suo agire, tastare, toccare aveva indossato.28

In un’opera di poco precedente, Svolgere la propria pelle del 1970, con l’ausilio di un apparecchio fotografico, Penone si cimenta nella mappatura del proprio corpo attraverso numerosi scatti che in seguito raccoglie insieme su un pannello in modo tale da riprodurre un corpus di immagini.

Fig. 7 – Giuseppe Penone, Svolgere la propria pelle, 1970, 607 fotografie in bianco e nero montate su 18 pannelli, particolare.
Fig. 7 – Giuseppe Penone, Svolgere la propria pelle, 1970, 607 fotografie in bianco e nero montate su 18 pannelli, particolare.

Penone, con questo lavoro, si è dato a “redigere pazientemente una sorta di catasto di tutta la sua epidermide”.29 In quest’opera l’artista sperimenta il divenire-pellicolare del corpo, la sua estensibilità attraverso una tecnologia, il montaggio a posteriori dei frammenti fotografici: il suo corpo viene letteralmente duplicato, moltiplicato, svolto e sviluppato (come si farebbe con un rullino) attraverso il lavoro fotografico. La pelle assume così il valore di una superficie simbolica; una superficie inscrivibile, leggibile come una carta geografica. Lo stesso artista sottolinea il carattere di

coincidenza fra la superficie del soggetto e la superficie della fotografia. Tutta la pelle del corpo era schiacciata contro un vetro. Per ogni immagine c’era una coincidenza tra la superficie piatta della carta fotografica e la superficie del soggetto riprodotto.30

Oltre che a un lavoro di estensione e catalogazione del corpo, si tratta anche di un lavoro di contatto tra corpo e immagine, giocato per la maggior parte sulla frontiera che separa la carta fotografica dal soggetto riprodotto. È proprio su questo limite che avviene quel toccare:

Producevo il gesto del toccare“31 che permette il passaggio delle tracce della propria identità sul materiale fotosensibile:”il lavoro sulla pelle è una riflessione sulle tracce, sulle impronte casuali, sulle immagini involontarie che produciamo, come l’impronta lasciata su un vetro o un vaso.32

Farsi pelle

Penone stesso è più volte ritornato su un aneddoto che chiarisce alcuni aspetti del suo lavoro di scultore: osservando, all’Accademia di Belle Arti di Torino, un suo professore modellare un busto, ha improvvisamente smesso di percepire come viso l’immagine che lentamente prendeva forma per addizione e sottrazione di materiale plastico, per non vedervi più altro che l’impronta delle mani dello scultore, il negativo della mani dello scultore.33 È grazie all’intuizione di questo ribaltamento che nascono molte delle opere di Penone. L’intuizione viene appunto da questo “rimbalzo” che il ribaltamento produce, dall’oggetto scultoreo al soggetto stesso. Di conseguenza, la pelle, come rivestimento dell’intero corpo, è un implicito del lavoro dello scultore, in quanto la forma scultorea si “memorizza” attraverso un lavoro “digitale”, tattile, di prensione, prodotto con il proprio corpo o con gli utensili, sue estensioni. La forma del corpo umano a sua volta si orienta in relazione alla sua memoria le cui tracce provengono dal contatto sempre rinnovato con il mondo esterno. Per lo scultore, dunque, la memoria è una qualità intrinseca della materia: la materia stessa è memoria. L’impronta che il materiale assume, grazie alle sue proprietà, è la sua memoria: la natura del supporto condiziona cioè la natura della sua scrittura. Così, per esempio, variano gli involucri legnosi di un albero a seconda della stagione, della piovosità, dell’umidità, della temperatura: l’albero è una forma estesa e spazializzata del tempo. Il corpo umano e i corpi in generale lo sono ugualmente; tuttavia in un’età primigenia, nell’essere umano, questa esperienza del tempo viene plasmata da mani altrettanto umane.

Così, attraverso uno spostamento di prospettiva, è possibile collocarsi fuori da se stessi e divenire-altro, farsi-pelle. Allora è possibile chiedersi: cosa modella l’albero e la pietra? Cosa li scava? Cosa li scolpisce? (Cfr. Essere fiume del 2010). Qual è la loro memoria materiale? Qual è la loro storia?

Fig. 8 – Giuseppe Penone, Essere fiume 7, 2000, pietra di fiume, pietra lavorata a mano, collezione privata.
Fig. 8 – Giuseppe Penone, Essere fiume 7, 2000, pietra di fiume, pietra lavorata a mano, collezione privata.

Ed è così che Penone interroga la materia come riflesso della sua stessa memoria. Come ricorda lo stesso artista in un’intervista con Celant,

l’essere umano non è confinato al suo corpo, ma la sua “persona” forma un’unica dimensione con la natura. Le barriere tra individuo e mondo coincidono nelle reciproche epidermidi e nei loro centri sensoriali. Attraverso queste, entrambi conquistano le fonti “esterne”, naturali o artefatte. L’essere umano si ritrova allora attraverso le sue propaggini sensorie e tattili (occhio, mano, pelle, piede, ecc.) in ogni cosa e ogni cosa è un documento della sua esistenza umana: una seconda pelle che ha lo stesso valore della prima".34

In Pelle di foglie del 2000,35 Penone propone di immaginare, attraverso una scultura in bronzo i cui rami ricordano i condotti per la colatura del metallo bollente, un corpo che si immerge in un ambiente naturale, “nell’oscenità del vegetale”.36

Fig. 9 – Giuseppe Penone, Pelle di foglie – 151 nomi di alberi, 1999, china su carta, Amiens, Collezione FRAC Picardie.
Fig. 9 – Giuseppe Penone, Pelle di foglie151 nomi di alberi, 1999, china su carta, Amiens, Collezione FRAC Picardie.

L’immersione di un corpo nella densità della vegetazione ci ricorda l’esperienza di Pierre Bonnard descritta da Serres. Anche qui è visibile la stessa logica del ribaltamento: il corpo è un corpo definito dall’elemento vegetale; vi è una definizione in negativo, nei termini di un non-Io, della superficie del corpo.

Fig. 10 – Giuseppe Penone, Pelle di foglie, 2000, scultura in bronzo, Centre Georges Pompidou.
Fig. 10 – Giuseppe Penone, Pelle di foglie, 2000, scultura in bronzo, Centre Georges Pompidou.

In quest’opera vi è una concezione della pelle come “fuori”: essa è ciò che individua l’uomo e quello che passo a passo lo individua (non c’è un individuo a priori quanto piuttosto continue individuazioni non uniformi). I limiti del proprio corpo si dissolvono sino a divenire il mondo circostante. L’intreccio tra vegetale e umano era già presente anche in opere degli anni ’80 come i Grandi gesti vegetali del 1983-84, in cui compaiono delle silhouette umane, sempre in bronzo, intrecciate a piante collocate in vaso: spetta dunque alla crescita biologica di queste una definizione complessiva del corpo dell’opera.

Fig. 11 – Giuseppe Penone, Gesti vegetali, 1983-84, sculture in bronzo, piante in vaso, © Mart Archivio fotografico e mediateca / Carlo Baroni.
Fig. 11 – Giuseppe Penone, Gesti vegetali, 1983-84, sculture in bronzo, piante in vaso, © Mart Archivio fotografico e mediateca / Carlo Baroni.

In serie come Ceppi di cuoio del 2010, Penone fa aderire al tronco di un albero del cuoio precedentemente umidificato in modo che esso s’imprima su questo e ne prenda la forma esatta.

Fig. 12 – Giuseppe Penone, Ceppi di cuoio, 2010, alberi, cuoio, Musée de Grenoble.
Fig. 12 – Giuseppe Penone, Ceppi di cuoio, 2010, alberi, cuoio, Musée de Grenoble.

L’opera Pelle di marmo-cervello, proposta per la Biennale di Venezia del 2007, consiste in una superficie di marmo adagiata sul suolo dello spazio espositivo. Muovendosi intorno ad essa si percepisce come il marmo sia stato scavato nei punti in cui si diramano le sue venature. L’opera richiama alcune passate sperimentazioni in cui l’artista s’interessa alla scatola cranica e alle visualizzazioni dei suoi contenuti invisibili – dei suoi “paesaggi”37 – ottenute mediante un delicato frottage di tutti i microscopici rilievi e differenziazioni della parete cranica interna.

Fig. 13 – Giuseppe Penone, Pelle di marmo-cervello, 2007, marmo di Carrara, LII Biennale d’arte di Venezia.
Fig. 13 – Giuseppe Penone, Pelle di marmo-cervello, 2007, marmo di Carrara, LII Biennale d’arte di Venezia.
Fig. 14 – Giuseppe Penone, Paesaggio del cervello, 1990, studio dell’artista, Torino.
Fig. 14 – Giuseppe Penone, Paesaggio del cervello, 1990, studio dell’artista, Torino.

Farsi la pelle

Possiamo guardare al lavoro di Penone come a una coazione a pensare il bordo del soggetto – che si fa e rifà nelle cose – e quello degli oggetti del mondo circostante. Negli stessi anni in cui Penone inizia i suoi lavori in cui soggetto e oggetto si approssimano sino a un punto d’indistinzione vengono pubblicati, in ambito filosofico, i primi lavori di fenomenologia della percezione. Parallelamente l’interesse per la pelle coinvolge anche il campo psicoanalitico. Ad indagare il tema della pelle, nel tentativo di fornire un contributo alla teoria dell’apparato psichico freudiana – dopo Esther Bick e l’idea di una “pelle psichica” del 1968 – è stato Didier Anzieu con il saggio L’Io-pelle del 1985. Anzieu non fa altro che chiarire alcuni termini che restano latenti in Freud, coniando le nozioni di Io-pelle e di involucro psichico. Già nel 1974 lo psicoanalista francese abbozza la nozione di Io-pelle in un articolo in cui l’idea di Io come involucro e interfaccia psichica viene traslata metaforicamente, in modo abbastanza elementare, sul piano somatico mutuando le funzioni biologiche della pelle e trasferendole a quelle psichiche dell’Io.38 Secondo Anzieu, l’Io-pelle si costituisce attraverso l’articolazione di una serie di membrane psichiche e la sua struttura è simile a quella di una cipolla.39 Durante lo sviluppo neonatale, diversi involucri (enveloppes) vengono incorporati: un involucro tattile, caldo e avvolgente, è il primo insieme a quello olfattivo in cui una pelle comune riunisce gli odori specifici degli orifizi e delle secrezioni della pelle. Seguono quello sonoro, in cui il neonato è immerso come in un “bagno” di suoni più o meno articolati prodotti da lui stesso e dall’ambiente; quello visivo formato da immagini psichiche interne, dalla “pellicola del sogno” e dagli stimoli visivi esterni. In seguito si creeranno le condizioni per una “pelle per i pensieri”, tela di fondo in grado di contenere le prime formulazioni del pensare. Il contributo di Freud e di Anzieu è quello di aver mostrato l’importanza e la centralità del corpo, l’appoggio dell’Io sulle funzioni biologiche e come lo psichico sia incarnato nel corpo. Anzieu rileva che la creazione di tali involucri svolga alcune funzioni di base nel funzionamento psichico: funzione di conservazione, contenimento, di para-eccitazione, di individuazione, di intersensorialità, di sostegno dell’eccitazione sessuale, di ricarica libidica, di iscrizione delle tracce.40 Tali otto funzioni sono modellate in riferimento ai mitemi con cui Frazer, nel Ramo d’oro,41 suddivide il racconto mitico di Apollo e Marsia. Ed è proprio attorno a questo mito che Penone e Anzieu s’incontrano: è possibile rintracciare negli scritti di Penone, in riferimento all’opera Rovesciare i propri occhi, un riferimento all’idea di pelle come involucro:

L’involucro è importante, è la definizione dell’individuo. La pelle lacerata interrompe la perfetta definizione della persona e permette una confusione con elementi e materie diverse che, a poco a poco, possono prevaricare e cancellare l’identità. È una confusione simile al suono che passa attraverso le cose. La pelle diventa tamburo, strumento musicale e poetico. Forse esiste una relazione tra la condizione del poeta cieco, la pelle involucro ed il mito di Marsia e Apollo, che vede dopo una gara musicale o poetica, il perdente scorticato. […] La pelle si può sfilare dal corpo come un guanto e diventa contenitore di vento, strumento musicale, cornamusa.42

Più recentemente è stato Stéphane Dumas, nel suo Les Peaux créatrices43 sulla scorta delle indicazioni di Anzieu, a rileggere, sotto l’apertura a un’“estetica della liminalità” il mito di Marsia e Apollo come paradigma della creazione artistica, in cui l’atto cruento della punizione del satiro si bilancia con un contrappeso creativo:44 alla fine dell’agone poetico, la pelle levatagli diventa uno “strumento sensibile” che permette un’esperienza estetica – in alcuni casi un panneggio, in altri una membrana che vibra e “suona”, un involucro sonoro. “La pelle del satiro diventa una pelle creatrice venendo investita da una dimensione estetica. Questo evento trasforma l’involucro cutaneo in un processo creatore”.45 Così è possibile avanzare, come fa Didier Semin, “la metafora dell’artista come ‘scorticato’ […] inteso come un corpo il cui confine con il mondo tenderebbe a farsi indistinto, come un corpo aperto che entri in risonanza con il mondo”.46 A tal proposito è possibile pensare al lavoro di Penone come a un prelevamento e riciclo costante di questi involucri che, nelle loro molteplici sovrapposizioni e stratificazioni, segnano il nostro modo di relazionarci con il mondo esterno.

“La scrittura ha il suo luogo sul limite”47

Vi è un continuo andirivieni, un continuo scambio tra il soggetto e l’ambiente, una continua partecipazione che sviluppa, di volta in volta, un ventaglio di forme differenti. Sembra questa la logica intrinseca delle opere di Penone. L’episodio chiave dell’inversione che vede nel negativo della scultura l’interesse maggiore dell’artista sembra definire lo stesso corpo umano come scultura modellabile dalle cose stesse (“la pressione dell’aria sul nostro corpo è la matrice della nostra pelle”).48 Sembrano qui risuonare le parole di Steven Connor che, nel suo saggio dedicato al tema della pelle, The Book of Skin afferma: “Assumiamo la nostra forma da quella che gli oggetti lasciano impressa su di noi”.49 L’esplorazione della materia è effettivamente un’esplorazione sulla materia che ci costituisce: l’interattività avvia a una riflessione sulle capacità del corpo umano come materia plasmata e plasmante. Se l’universo tattile è così fondamentale in Penone questo è anche dovuto al particolare tipo di relazione a “doppio feedback”50 che l’artista intrattiene con l’ambiente, riconducibile probabilmente a esperienze primigenie significative.51 Nei primi anni dell’esistenza umana, una serie complessa di relazioni s’inscrivono, potremmo dire, su un corpo che ancora è altamente plastico. Non è difficile trovare in un testo critico su Penone dei riferimenti a Garessio, il suo paese natio, situato tra la Liguria e il Piemonte a pochi chilometri dalla frontiera francese. Tutta una ricchezza di impressioni deve aver stimolato il giovane artista. In questo senso il suo luogo di nascita potrebbe rappresentare una sorta di matrice del suo lavoro, l’ambiente fisico e umano che ha (sovra)determinato la sua forma mentis e che risulta essere il refrain nascosto del suo sviluppo artistico.52

La pratica artistica di Penone si genera dunque dove le cose si scrivono53 mutualmente l’una sull’altra. La mano archeologica scava, rimuovendo un involucro dopo l’altro, per cercare il tempo passato nel suo presente materiale, nel terreno, nel tronco (Albero porta-cedro, 2012), nel corpo stesso del soggetto.

Fig. 15 – Giuseppe Penone, Albero porta - cedro, 2012, cedro, Château de Versailles.
Fig. 15 – Giuseppe Penone, Albero porta - cedro, 2012, cedro, Château de Versailles.

Il corso d’acqua “scrive”, come la mano dello scultore, modellando la pietra grezza (Essere fiume); la luce nondimeno scrive l’albero e ne scolpisce il disegno (Penone arriva a definire l’albero una fotografia in volume: “La pelle è la struttura del legno, indica la luce, è una forma plasmata della luce, una scultura della luce, una fotografia in volume”).54 Di pari passo questo scriversi reciproco costituisce intimamente l’essere umano. In uno scritto del 1924, Nota sul “notes magico”,55 Freud propone una formulazione anticipata del concetto di Io-pelle. Il notes magico consiste in una tavoletta di cera alla quale viene fatto aderire un foglio di celluloide su cui è possibile scrivere con uno stiletto, i cui segni però si cancellano nel momento in cui il foglio viene sollevato. Ma le tracce che scompaiono sul foglio di celluloide rimangono, anche se non visibili, sulla tavoletta di cera sottostante. Freud vede in questo Notes – specie di “macchina della scrittura” secondo Derrida – una materializzazione dell’apparato psichico: esso riceve le tracce senza mantenerle e le mantiene mentre le cancella. Vi è dunque “persistenza della traccia e della verginità della sostanza che la riceve”56 nello stesso tempo. A partire da quest’idea, si può assumere come sia l’ambiente (fisico e umano) a scrivere mediante le sue impressioni che, di volta in volta, si mantengono nel soggetto come molteplici stratificazioni. La pelle non riassume allora nella sua doppia funzione passiva/attiva – superficie inscrittibile e superficie scrivente – questo “essere tra” (entre-deux), questo intessersi del corpo in mezzo alle cose? Come afferma Jean-Luc Nancy, il quale ha dedicato una buona parte della sua riflessione alla figura del toccare, “se dunque alla scrittura accade qualcosa, le accade solo di toccare. Le accade di toccare il corpo”.57 Questo toccare o approssimarsi pertiene, potremmo affermare, alla pelle, limite del corpo la cui scrittura è sempre in fieri. Essa rappresenta lo spazio che accoglie quel contatto senza il quale non si darebbe la vita. Non solo l’uomo ha una pelle, ma tutte le cose: la grafite, il marmo, l’albero, il fiume, il vento stesso. Il limite della pelle designa quel dove, eletto da Penone, in cui l’uomo e la natura si toccano senza toccarsi ed entrambi si disappropriano della loro identità per corrispondersi e includersi reciprocamente.

Bibliografia

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  1. Serres (1985).

  2. Ivi, p. 71.

  3. Ivi, p. 34: “Je ne puis décider s’il fait voir le tissu des choses mêmes ou l’épiderme écorché de Pierre Bonnard, le sujet de l’impression ou l’objet imprimé. Le bain les réunit, où se plonge le sujet imprimé de feuillages et de fleurs”.

  4. Penone (2009, p. 141).

  5. Ivi, p. 13.

  6. Ibidem.

  7. Freud (1905, p. 480).

  8. Penone (2009, p. 136).

  9. Didi-Huberman (2008, p. 25).

  10. Ferrari (2002, p. 173): L’identità di Penone “vuole essere dispersa nella natura, o meglio, intende riconfluire in essa. È un ritorno alla natura perché in fondo questa identità coincide con questa immedesimazione con le proprie origini”.

  11. Didi-Huberman (2008, p. 25).

  12. In una delle più recenti monografie sul lavoro dell’artista piemontese, Busine (2012), quello della pelle è stato eletto come uno dei sette temi rappresentativi della sua opera.

  13. Merleau-Ponty (1989, p. 19): “Visibile e mobile, il mio corpo è annoverabile fra le cose, è una di esse, è preso nel tessuto del mondo e la sua coesione è quella di una cosa. Ma poiché vede e si muove, tiene le cose in cerchio intorno a sé, le cose sono un suo annesso o un suo prolungamento, sono incrostate nella sua carne, fanno parte della sua piena definizione, e il mondo è fatto della medesima stoffa del corpo”.

  14. Didi-Huberman (2008, p. 17): “È significativo il fatto che Penone, nel suo modo di scrivere e parlare della scultura, preferisca sempre le forme verbali a quelle nominali. È significativo che una scultura di Penone possa avere come titolo un verbo – verbo all’infinito, quindi infinitamente continuo, che esprime forse un desiderio senza fine, se non un imperativo categorico”.

  15. Connor (2007, p. 35): “Bodies living in time, which is to say, bodies being marked with decay. Time is marked in bodies, and all bodies mark time”.

  16. Montagu (1986, p. 3). Montagu afferma come “anche la cornea sia ricoperta da uno strato di pelle modificata”: “event the transparent cornea of the eye is overlain by a layer of modified skin”.

  17. Penone (2009, p. 59).

  18. Penone (1977, p. 3).

  19. Penone (2009, p. 324).

  20. Celant (1989, p. 20).

  21. Penone (2009, p. 246).

  22. Ivi, p. 57.

  23. Dumas (2014, p. 163): “L’epiderme emprunté, sorte de simulacre de la main gauche projeté sur la main droite, transforme cette dernière en sculpture”.

  24. Ibidem: “Matérialisazion de la sensation d’être touchée”.

  25. Merleau-Ponty (1965, p. 144).

  26. Freud (1922, p. 488): “Il corpo, e soprattutto la sua superficie [la pelle], è un luogo dove possono generarsi contemporaneamente percezioni esterne e interne. Esso è visto come qualsiasi altro oggetto, ma al tatto dà luogo a due specie di sensazioni, una delle quali può essere equiparata a una percezione interna”.

  27. Dumas (2014, p. 163): “figure du tact”.

  28. Celant (1989, p. 64).

  29. Barilli (2010, p. 473).

  30. Madesani (2013).

  31. Celant (1989, p. 30).

  32. Ivi, p. 24.

  33. Gianelli (2007, p. 45).

  34. Celant (1989, p. 13).

  35. Dumas (2014, pp. 303-307).

  36. Ivi, p. 303: “obscénité du végétal”.

  37. Cfr. Penone (2003). Quest’interesse di Penone per la scatola cranica sembra essere direttamente legato al tema della pelle. L’embriologia mostra come pelle e cervello abbiano una stessa origine nell’ectoderma, uno dei due foglietti di cui è composto l’embrione allo stadio di gastrula. Didier Anzieu lo segnala nel 1984: “Nello stadio di gastrula, l’embrione prende la forma di un sacco mediante”invaginazione" di uno dei suoi poli e presenta due foglietti, l’ectoderma e l’endoderma. Si tratta d’altronde di un fenomeno biologico quasi universale: ogni scorza vegetale, ogni membrana animale, salvo eccezioni, comporta due strati, uno interno e l’altro esterno. Torniamo all’embrione: l’ectoderma forma sia la pelle (inclusi gli organi di senso) sia il cervello. Il cervello, superficie sensibile protetta dalla scatola cranica, è in contatto permanente con tale pelle e con i suoi organi, epidermide sensibile protesta dall’ispessimento e dall’indurimento dei suoi strati più superficiali". Anzieu (2017, p. 9).

  38. Freud, (1922, p. 490): L’assunto di base è che “l’Io cosciente è prima di ogni altra cosa un Io-corpo”.

  39. Nella cipolla – afferma Didi-Huberman – “il contenitore in essa si identifica esattamente con il contenuto, secondo un paradosso ‘pellicolare’ che fornisce, certo, un’immagine d’elezione allo specialista della geometria, al filosofo e all’artista. Nella cipolla, in effetti, la buccia è il nucleo: ormai più nessuna gerarchia possibile tra centro e periferia. Un’inquietante solidarietà, fondata sul contatto – ma anche su interstizi ultrasottili – lega ciò che avvolge e ciò che è avvolto. L’esterno, qui, non è altro che una muta dell’interno”. Didi-Huberman (2008, p. 11). È proprio attraverso questo “paradosso pellicolare” che si possono osservare opere come, ad esempio, Albero di 12 metri del 1980.

  40. Anzieu (2017, pp. 97-115).

  41. Ivi, p. 54.

  42. Penone (2009, p. 71).

  43. Dumas (2014).

  44. Lo stesso Anzieu affermava prima di Dumas: “tale rovesciamento distruttivo mi sembra avere come contrappeso un rovesciamento creativo che, come ha mostrato Guillaumin (1980), consiste nel rovesciare immaginariamente la pelle come un guanto, facendo del contenuto un contenitore, dello spazio del dentro una chiave per strutturare il fuori, delle sensazioni interne una realtà conoscibile”. Anzieu (2017, p. 54).

  45.  Dumas (2014, p. 53): “La peau du satyre devint une peau créatrice en étant investie d’une dimension esthétique. Cet événement transforme l’enveloppe cutanée en un processus créateur”.

  46. Semin, cit. in Gianelli (2007, p. 14).

  47. Nancy (2014, p. 13): “Scrivere tocca il corpo, per definizione”.

  48. Penone (1999, p. 98).

  49. Connor (2007, p. 35): “We take our own print from the print of objects upon us”.

  50. Anzieu (2017, p. 55). Il doppio feedback è considerato nel sistema diadico madre-bambino: “nella situazione diadica, [il bambino] non è un partner passivo ma attivo, è in costante interazione con l’ambiente in genere e con quello maternale in particolare”.

  51. Anzieu (2017, p. 56). Anzieu osserva che “la sollecitazione reciproca permette al bambino di agire sull’ambiente umano (e, attraverso la mediazione di questo, sull’ambiente fisico), di acquisire la distinzione fondamentale tra animato e inanimato”.

  52. Montagu (1986, p. 6). Montagu ricorda che “lo sviluppo della sensibilità [di un individuo] dipende in gran parte dal tipo di stimolazione ambientale che riceve”: “development of its sensitivities depends largely upon the kind of environmental stimulation it receives”.

  53. Fontanille (2004, p. 309): “L’insieme delle impronte ricevute su un involucro costituisce una sorta di”testo" da decifrare in ragione della ricostruzione della memoria che vi è iscritta. […] A questo proposito si deve riconoscere che il ruolo della superficie d’iscrizione deriva direttamente dalla funzione svolta: interfaccia e luogo di contatto/ interazione con gli altri corpi“. In un recente saggio Serres (2017) si pone l’interessante domanda:”Anche le cose scrivono?" supponendo che le cose stesse, lasciando o emettendo dei segni, possano in qualche modo scrivere.

  54. Penone (2009, p. 142).

  55. Freud (1924, pp. 63-68).

  56. Derrida (1971, p. 259).

  57. Nancy (2014, pp. 12-13).