Dopo qualche anno…
Questo articolo intende ripensare alla storia di una mostra “rara” e difficile, realizzata in Italia nel luogo in cui avrebbe dovuto essere realizzato il Museo dell’Arte Irregolare.
Si trattava di Sospiro, un piccolo borgo di pianura addossato a una enorme villa neoclassica che nel corso degli anni era diventata una edulcorata versione residuale di ospedale psichiatrico, come molte altre che, malgrado la rivoluzione culturale di Basaglia, continuano a sopravvivere in Italia, spesso con gestione privata in convenzione pubblica.
Era dunque un luogo ambiguo, non solo socialmente, ma anche paesaggisticamente, piatto e intriso di umidori e densità ambientali che ne intorbidivano la lettura, come l’atmosfera bagnata di nebbie prodotta dal grande fiume Po che caratterizza tutto quel territorio.
Ricordo che gli amici svizzeri,1 editori del futuro catalogo della mostra, si sentivano spaesati, persi, senza il riferimento paesaggistico forte delle loro montagne… perdevano continuamente la strada e manifestavano inquietudine, come se intravedessero i fantasmi delle loro paure o intrasentissero le voci dei loro deliri.
Per questo intendo riconsiderare alcuni motivi, alcuni dichiarati e alcuni sottintesi, che mi portarono alla decisione di inaugurare l’impresa museale con una mostra di Armand Schulthess, uno dei più fenomenali artisti del paesaggio.
La ferita e il paesaggio
Franco Beltrametti ha analizzato, in un articolo del 1973,2 ripetutamente ripreso e ampliato in numerose versioni successive, il possedimento di Armand Schulthess: due ettari di castagneto tortuoso, poco sopra l’antica strada romana della stretta Val Onsernone e ha rilevato il bizzarro e irrazionale sistema di percorsi ottenuto dall’allestimento di viottoli a zig zag, passerelle, scale e ponti instabili e rischiosi su precipizi di 10-20 metri.
Procedendo sulla sua analisi vorrei considerare che, da un punto di vista metaforico, ogni forra, ogni burrone possono essere considerati come incisioni che tagliano il territorio, istituendo fratture che si screpolano in angolazioni ripide; d’altra parte giù in fondo, quasi 300 metri al di sotto della baita del “proprietario”, come Corinna Bille chiama Armand Schulthess in un racconto indimenticabile del 1980,3 giù in fondo dunque, il fondovalle divide uomini, alberi e animali che vivono su una riva rendendoli irraggiungibili rispetto a coloro che abitano la sponda opposta.
Riassumendo, si può ben dire che il possedimento comperato da Schulthess è paragonabile orograficamente a una ferita lungo un territorio, ed è nella simbologia della ferita che va ricercato il significato globale di questo terreno arroccato su un solco che non unisce, ma divide, è ferita sempre aperta, è sangue che scorre.
Se anche Günter Brus che passeggia per le piazze di Vienna proclamandosi “guerriero della coscienza” intende dimostrare che l’arte ferisce il mondo e muove orizzonti che compaiono solo da squarci e lacerazioni aperte, tornando alla valle Onsernone, è ancora più evidente che il dirupo stesso, in quanto taglio, è già segno artistico, è già significante, langue in attesa di trasformarsi in parole.
Su queste valli ticinesi dunque si inerpicano faticosi agglomerati boschivi, fitti di cespugli e rampicanti inestricabili, rifugio di uccelli e – per secoli – di personaggi isolati, in cerca o in fuga da qualcosa, fuorilegge, disertori, clandestini, anime solitarie.
Queste valli sarebbero infatti ciò che Gilles Clément chiama “terzo ambiente”: formazioni residuali del paesaggio coltivato, luoghi incerti, “frammenti indecisi” del Giardino Planetario che rappresentano la somma degli spazi abbandonati dall’uomo e dove la natura riprende il controllo.4
In queste terre è facile per uomini dotati di speciale sensibilità, avere la sensazione di individuare misteriosi passaggi e porte segrete verso tutto ciò che funziona diversamente da come dovrebbe, mettere in moto utopistici e rivoluzionari meccanismi dell’insuccesso (per usare un’espressione di Lucienne Peiry), tane invitanti in cui ci si può nascondere dal tempo della storia, “permettere al proprio io di dividersi come ha sempre segretamente sognato…”.
La luce rada e filtrata da castagni e fichi selvatici lo manterrà sempre un luogo misterioso, mai completamente perlustrabile, insinuato da vuoti che vanno colmati, e che producono nell’uomo che lo abita questa attitudine all’immaginario.
La raccolta di materiali relittuali per la straordinaria installazione di Schulthess è, in fondo, un’operazione schiettamente “ecologica”: abito dunque sono, perché costruisco, assesto, custodisco.
Utilizzo il termine “operazione ecologica” in riferimento all’oikos nel suo senso completo di soggiornare, amministrare, governare: nucleo originario di ogni paesaggio, primo, secondo o terzo che sia.
Dice Armand Schulthess a Ingeborg Luescher:
Guardi come ho sistemato qui. Questo posto è nuovo. Ho fatto ordine ora. Ho portato dentro dei sassi. Non ce n’era nemmeno uno. E tutto è delimitato da rami. Così ci si potrà poi sedere in estate. Questo tronco, questo grosso. L’ho trascinato qui ieri. Dal fondo della cascata. E poi c’è il ghiaccio e si scivola. E ’sto tronco è pesante…5
I materiali
I materiali raccolti da Schulthess vengono dunque dal residuo e il residuo non è mai soggettivo, ma sociale, i residui sono come la reliquia nella religione, fanno parte di una realtà contestuale che interessa l’umanità perché la lega anche alla non-umanità.
Inoltre, il residuo che viene trattato da Schulthess non si colloca nel passato, ma è futuro, come dimostrano le isole di spazzatura negli oceani, le strade-discariche fra i condomini in Cina o in Campania, la montagna composta da 150mila giubbotti salvagenti che sull’isola greca di Lesbo sono i residui dello sbarco in Europa di migranti e profughi provenienti da Siria e Iraq.
L’igloo di giubbotti salvagente è stato realizzato dal giovane Achilleas Souros, 16 anni, nato a Londra e cresciuto tra Atene e Barcellona che l’ha presentato al Fuorisalone di Milano dell’anno scorso.
Sarebbe piaciuto a Schulthess, ossessionato dal recupero di oggetti e immagini rifiuto, destinate prima o poi a scomparire, così come gli sarebbe piaciuto il Muro di Fabio Mauri che è costruito con le valigie ancora maleodoranti di olocausto, tratte dai cumuli di depositi di Auschwitz.
Le liste di materiali per una sorta di catalogo della distruzione nel Museo della Pace ad Hiroshima, le “cose sensibili” di Merleau-Ponty, e, molti secoli prima, le “lacrime delle cose” di Virgilio: come dire la “tristezza” delle cose, la loro meravigliosa inattualità avrebbe attratto l’artista eremita che con le cose intesseva un rapporto di prossimità vertiginosa e ingorda; meravigliosa inattualità, dicevo, nel senso che le cose raccolte da Schulthess non attivano la memoria, ma piuttosto il presagio e la profezia.
Per chiarire ancora di più questo punto, proviamo a qualificare questi oggetti escrementizi, da escrementa che significa ciò che è separato; disseminazione degli stessi, separati dalla loro prosaica funzione originaria in nome di un nuovo senso infedele alla logica ordinaria, perché non si smarriscano, ma si auto generino in futuro.
Lei non ha idea di quanto il suo mondo sia diverso dal mio. All’inizio mi ero portato tutto da Zurigo. Il frigorifero, il gabinetto, lo scaldabagno, il lavandino. Ho tutto. Ho addirittura tre frigoriferi. Ma non c’è bisogno di niente. Nemmeno del cesso. Il mondo è così strano. Sa, un giorno squilla il telefono. Era la compagnia telefonica di Bellinzona, dicevano che il mio telefono era guasto e che probabilmente bisognava ripararlo. E io parlo con loro, con un ufficio, e loro non sanno che io me ne sto qui senza i pantaloni. Avevo appena cagato. Su un cumulo di terra.
Escrementa. Ecco, io credo che quella di Schulthess sia una splendida, orgogliosa dissolutezza: in diversi scritti critici sui cataloghi appare la parola dissoluzione, ma io voglio deformarla, foneticamente e semanticamente fino alla parola dissolutezza, e potrei arrivare alla… dissolutezza della dissoluzione.
Il dialogo con Ingeborg sulla straordinaria giunzione fra il telefono, il suo disfunzionamento, la ridicola voce della compagnia telefonica e gli escrementi (ciò che sarebbe stato separato…) continua: “E poi la porto sotto il melo (la cacca). E l’albero produce sempre meglio”.
La parola
Il legame fra scrittura e ferita è antichissimo perché da sempre graphein è incidere, graffiare, segnare; il segno è sempre lo sfregio prodotto dall’incisione di punte o di pietre, è un taglio.
La scrittura di Schulthess celebra l’unicità del gesto antico della mano sul supporto e la sua virtuale irreversibilità; e l’installazione di magnifiche catene di coperchi di lattine iscritte con un ferro da calza (che punge!) e colori a olio rappresentano lo sforzo titanico di tracciare, marcare, registrare, noverare, citare, ordinare, costruire, seminare (esattamente come dopo una catastrofe nucleare).
“Lei legge in modo molto diverso da me. Lei legge solo per dare uno stimolo ai sentimenti. Io leggo per classificare. Faccio delle liste con delle parole chiave”.
Rispetto alla scrittura, l’obiettivo di Schulthess è dunque quello di destituire il castello dei significati e rivelare l’abissale vuoto che si spalanca dentro e sotto questa rassicurante cartolina di mondo.
“Bisogna conservare tutto, quando c’è qualcosa da leggere. Non bisogna dire che è solo un imballaggio Frionor e della pubblicità. Solo quando lo si legge davvero, si sa cosa c’è scritto”. E immediatamente, nella sua scrittura corsiva e regolare, da impiegato di cancelleria, la parola diventa anarchica e irriverente, solenne e oracolare, pensiero in opera che esperimenta e offre, disseminandoli, exempla circa la possibilità se non di abitare incondizionatamente, almeno di sopravvivere con dignità in un universo in cui dominano incontrastate le logiche e i dispositivi dell’esclusione, dell’isolamento e della negazione.
Nel Giardino della conoscenza Armand Schulthess aveva dunque tentato di ricostruire un’enciclopedia su cui fosse possibile posizionare la vita: tutto per praticare la fotografia, per chi si crede fotografo; la musica per chi si vuole musicista; l’astronomia e l’astrologia, la matematica e la letteratura, l’amore e la cucina, le scienze occulte, l’ingegneria… Viene spontaneo il richiamo a Duchamp, l’artista che ha ricercato la dimensione segreta, quella che chiamava “quadrimensionale” o “quantità sconosciuta” istituendo con la scienza rapporti seri e continui, e allo stesso tempo provocatoriamente parodistici.
Certo, l’ambiente naturale, l’enormità del progetto, il vandalismo e i furti comportavano cadute e conseguente manutenzione continua:
Un tempo avevo classificato tutto per bene. Secondo i campi. Qui la fisica. Qua la cucina. Là la parapsicologia. Oggi invece è un pasticcio. Gli alberi si estendono, diventano più grandi, no? E allora salta via tutto, il filo, le tavole cascano sempre…
Le persone che vengono qui vogliono solo raccogliere castagne e prendermi in giro. Dicono che sono matto. Queste sono cose che vanno conservate. E studiate. Io annoto tutto. È appeso là davanti.
Poi, scrive Ingeborg Luescher, si volta tre volte, fa un gesto con il braccio e grida:
Naturalmente non interessa a nessuno!
Naturalmente non interessa a nessuno!
Naturalmente non interessa a nessuno!
Nella foresta incendiata i leoni erano freschi6
Era la notte tra il 25 e il 26 agosto 1992 quando, ricordate?, ci giunse la notizia che la biblioteca di Sarajevo era stata bombardata e incendiata dai nazionalisti serbi che volevano distruggere la città e i suoi abitanti.
Il capo bibliotecario Dervis Korkut, un funzionario d’origine albanese dal nome musulmano, nascose sui monti l’Haggadah, il più antico documento ebraico d’Europa: in un villaggio della Bosnia rurale fu custodita da un imam nella modesta biblioteca della sua umile moschea.
I roghi concepiti per eliminare “lo spirito non tedesco”, vennero organizzati dalla Deutsche Studentenschaft (Associazione degli studenti tedeschi). Il più grande rogo avvenne il 10 maggio 1933 nell’Opernplatz berlinese; in questo giorno, infatti, si organizzò un grande falò dove vennero gettati i libri considerati dai nazisti “contrari allo spirito tedesco”. Nello stesso giorno il gerarca nazista Joseph Goebbels vi tenne perfino un discorso, dove affermava che i roghi erano un ottimo modo “per eliminare con le fiamme lo spirito maligno del passato”.
Tutti conoscono Firenze, la culla dell’arte, dove la bellezza è ovunque, si tocca, si impara. Forse proprio per questo, la notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 la mafia ha scelto di colpirla: quella notte, a Firenze, un’automobile imbottita di tritolo viene fatta esplodere danneggiando gravemente la sede dell’Accademia dei Georgofili e una parte del Museo degli Uffizi. A causa della scoppio hanno perso la vita cinque persone.
E il 27 luglio 1993… vi ricordate? Ci sono state ancora cinque vittime a Milano, nello scoppio e nell’incendio del PAC, l’edificio progettato dall’architetto Ignazio Gardella, per le mostre di arte contemporanea.
Torniamo al fuoco: da sempre dunque il fumo dell’incendio dei libri e degli oggetti considerati “inutili” eleva spire di fanatismo e censura; ogni volta che il fuoco brucia libri, c’è nell’aria la suggestione dello sterminio; ecco che anche in questo strano e pacifico luogo del Canton Ticino vengono dati alle fiamme tutti i materiali compulsivamente collezionati da Armand Schulthess, pezzi di mondo in cui si conservano tracce di spirito vitale, prove di resistenza all’insensatezza e alla dissoluzione di presunte certezze.
Sono gli eredi dell’artista eremita che decidono di “fare pulizia” e, insieme, di eliminare ogni traccia di un eventuale testamento che li spodesti dalla proprietà del terreno e delle casupole (casa Reggio e Virginia).7
La mostra al MAI
Quando programmai la mostra per l’inaugurazione del MAI, i miei collaboratori e io ci ponemmo moltissimi problemi e in questa occasione voglio ringraziare l’architetto Pier Vincenzo Rinaldi che, forte della sua pluriennale collaborazione con Germano Celant, accettò la sfida di allestire i molti materiali di Schulthess nella Rotonda della grande Villa settecentesca di Sospiro. In attesa di ritornare nella loro sede di Casa Anatta a Monte Verità dove li aveva allestiti Harald Szeemann8 e grazie alla mediazione di Ingeborg, moglie di Harald e scopritrice e studiosa di Schulthess,9 gli oggetti e le installazioni ci erano giunte scomposte e frammentate negli imballaggi che giacevano da molti anni nei magazzini del museo di Locarno.
Oggi Pier Vincenzo non c’è più e ricordo con particolare intensità le animatissime discussioni per arrivare ad un metodo allestitivo accettabile: ebbene, anche in questo caso proprio il verso poetico di Vitrac guidò la nostra scelta: “nella foresta incendiata i leoni erano freschi”.
A volte, tutti l’abbiamo provato, entrare in un museo può essere un’esperienza malinconica, molto simile a quella provata quando si visita uno zoo; di fronte alla gabbia dei leoni si può avere un’idea approssimativa di cosa sia un leone e, non avendone mai visto uno dal vero, ci si può anche accontentare. Ma le opere non sono l’artista… sono le loro zampate sul nostro spirito e i graffi sulla nostra coscienza: questo genere di leoni resistono alle domande di schiarimento logico (la cosiddetta spiegazione), difendono il loro diritto a una parte di misconoscimento e di incomprensione, mantengono una specie di indeterminatezza che è anche una riserva di avvenire e di senso.
Un leone non è certo quella povera bestia depressa che sonnecchia tutto il giorno in un angolo della sua prigione: chi lo ha immaginato correre nella savana inseguendo la sua preda sa bene che è tutta un’altra cosa. E allora pensammo di trattare piastre e tondini, rami e collane di lattine e grandi mappature e traiettorie astrologiche come parti esteticamente autosufficienti, come opere concettuali che rifiutano la spettacolarizzazione e gli “effetti speciali” di ricostruzioni ambientali impossibili.
Una proiezione delle più belle pagine dei libri composti da Schulthess sugli “strumenti della sublime orchestra” era stata indirizzata sulla volta a nido d’ape della cupola del salone (paradossalmente la vibrazione luminosa della sequenza di diapositive baluginava la luce muovendola in continuazione, come in un sottobosco…).
Un grande cubo bianco sosteneva travi da cantiere a cui erano appese le collane di iscrizioni su latta, e la molteplicità, per quanto ordinatamente organizzata, conservava un aspetto materico e turbolento, addirittura lo accentuava.
Alcuni grossi supporti di legno grezzo, decontestualizzati dal bosco e galleggianti su quelle pareti di un bianco perfetto, acquistavano il valore sacrale ed estetico di una reliquia, di un ospite sconosciuto e “fuor di luogo”, alludevano a una misteriosa latenza che li apparentava a sculture severe e silenziose dell’Arte Povera italiana (penso a Kounellis, soprattutto).
Anche la scrittura, guardata da vicino, appariva alleggerita dai significati, minima ma sovraccarica, leggera ma densa di fonologie e di forte carica semantica.
Ebbene, malgrado i settant’anni di distanza, anche questa mostra avrebbe potuto essere definita “degenerata” (Entartete Kunst) e “degenerato” avrebbe potuto essere definito il Museo che la mostra per l’appunto inaugurava (il MAImuseo): dopo settant’anni – e a Monte Verità dove le opere sono tornate lo si sente con chiarezza – l’utopia dichiara la sua difficoltà a diventare storia per l’inesorabile ruolo regressivo svolto dal cinismo del mercato, per la perdita di quel “minimo di civiltà” che Hans Magnus Enzensberger individuava non solo nei diritti civili o sociali, ma anche per l’impossibilità di un ritorno a condizioni di sostenibilità economica e pluricentralismo organizzativo.
Dunque un Museo periferico, fra i vapori del bacino del Po, non sostenuto dai necessari finanziamenti e dalla fiducia culturale e morale dei cittadini, un museo di questo genere non ha trovato le ali.
Quindi, ispirandomi all’ultimo libro di Luigi Zoja,10 sto accettando il fatto che l’utopia non può che essere minimalista, paziente, responsabile, fatta di gesti quotidiani ed equilibrati: nella grande villa c’è ancora un laboratorio frequentato da pochi ospiti dell’istituto di riabilitazione psichiatrica nel quale, malgrado la più assoluta indifferenza istituzionale, si sono delineate alcune fortissime personalità artistiche che hanno ottenuto riconoscimenti nelle più prestigiose manifestazioni internazionali. Dove finiranno le loro opere?
Aprirà invece una nuova “casa” per quelle speciali opere sensibili che si sono salvate dall’incuria e dalla burocrazia più insensata grazie al lavoro di alcuni spiriti eccezionali: questa casa sarà curata con amore e competenza da operatori giovani chiamati al lavoro con nuove idee, grandi spazi e giusti investimenti economici dalla Fondazione Bussolera Branca di cui è presidente il collezionista avventuroso e visionario Fabio Cei e da suo figlio Leo.
Lunga vita a questa casa, che se Dio vuole, diventerà anche la nostra.
Bibliografia
Britschgi M., Bille S. C., Frey T. (1996). Armand Schulthess 1901-1972. Luzern: Diopter, Verlag für Kunst und Fotografie.
Clément G. (2005). Manifesto del Terzo paesaggio; trad. it. Macerata: Quodlibet.
Lüscher I. (1972). Dokumentation über Armand Schulthess. Der größte Vogel kann nicht fliegen. Köln: M. DuMont Schauberg.
Mengoni L. (2016) (a cura di). Armand Schulthess, domaine n. 1. Bellinzona: Edizioni Sottoscala.
Szeemann H. (1978). Le mammelle della verità. Monte Verità Ascona. Milano: Electa; Locarno: Armando Dadò editore.
Tosatti B. (2013) (a cura di). Armand Schulthess. Il giardino della conoscenza. Bellinzona: Edizioni Sottoscala.
Zoja L. (2013). Utopie minimaliste. Un mondo più desiderabile anche senza eroi. Milano: Chiarelettere.
Luca Mengoni e Massimo Prandi, curatore e grafico del catalogo Tosatti (2013).↩
Franco Beltrametti in Mengoni (2016).↩
Marcus Britschgi, Corinna Bille, Theo Frey (1996).↩
Clément (2005).↩
In Luescher (1972). La traduzione italiana di questa e delle altre citazioni è della stessa Ingeborg che spesso le ha integrate con osservazioni e ricordi nelle sue conversazioni con me.↩
Il verso è di Roger Vitrac (1899-1952) poeta surrealista.↩
Schlumpf Hans-Ulrich, Armand Schultess – J’ai le téléphone, Zurich 1974, film rieditato su CD nel 2011.↩
Szeemann (1978).↩
Luescher (1972).↩
Zoja (2013).↩