Siponto secondo le fonti
Situata alle pendici della penisola del Gargano, Siponto nacque come colonia romana intorno al 194 a.C. Abbandonata tra il IV e il V secolo d.C. a seguito dei ripetuti saccheggi, poté rinascere sotto l’egida del cristianesimo quando fu liberata dagli invasori. A quell’occasione, presumibilmente intorno al 465 d.C., si ritiene possa risalire l’edificazione del Gran Duomo Sipontino, che prese poi il nome di Basilica di Santa Maria Maggiore quando divenne la più grande a confronto con le altre chiese. Tuttavia, con i terremoti che si verificarono tra l’XI e il XIII secolo, la chiesa crollò rovinosamente, per poi essere rimpiazzata da una nuova struttura nella zona contigua alla facciata della precedente edificazione. “Un’idea molto pallida di quel sontuoso tempio” – di cui per altro ereditò il nome – “si raffigura nella chiesa che attualmente esiste”.1
La città vecchia fu poi definitivamente evacuata nel 1223, quando re Manfredi di Svevia fondò la Nuova Siponto, attuale Manfredonia. Solamente a distanza di secoli, il rinvenimento del 1872 di un pilastrino e di un’ara dedicata alla dea Diana riaccese l’interesse nei confronti di quel luogo e diede seguito a una serie di rilievi che consentirono di delineare l’assetto complessivo del sito.
Dall’osservazione delle stratificazioni, emerse distintamente la porzione muraria in opus reticulatum, tecnica tipica dell’edilizia romana, che doveva in realtà comprendere un ambiente molto ampio poi nascosto dall’edificazione delle tre navate del duomo. L’alzato dell’abside in tufelli e laterizi sarebbe stato invece ricondotto all’originaria architettura della Basilica, poiché costruito con la medesima tecnica.2 Non v’è dubbio che il pessimo stato di conservazione dei reperti sia in gran parte riconducibile all’ostinazione con cui le catastrofi naturali e gli assedi si abbatterono sul territorio. Le testimonianze si presentano così gravemente lacunose che sono pressoché assenti le notizie sull’aspetto originario dell’emergenza archeologica più significativa dell’area, quella cioè rappresentata dalla planimetria della Basilica paleocristiana. Praticamente inesistenti sono i dati che riguardano la zona dal momento in cui, a seguito dell’abbandono, divenne una vera e propria cava a cielo aperto.
Il progetto “prima del progetto”
Dagli studi più attenti dei reperti, a testimonianza di un utilizzo della zona per scopi agricoli intorno alla metà del Cinquecento, emersero i segni lasciati dal passaggio degli aratri sui conci. Se questo elemento attesta lo stato di totale abbandono dell’area, ci porta anche a un’ulteriore considerazione: quella secondo cui Siponto sarebbe rimasta desolata e praticamente sommersa da cumuli di terra fino al Novecento inoltrato. Fu solamente all’alba del secolo nuovo, con l’emersione degli ambienti principali, che quel luogo da secoli consacrato alla cristianità veniva ufficialmente riconosciuto come sito archeologico. La modificazione dell’aspetto complessivo del luogo, verificatasi con l’abbandono e la progressiva ruderizzazione degli edifici, trovò un naturale riscontro: il decadimento fisico della materia architettonica svincolò di fatto i resti dall’uso pratico-religioso previsto dal progetto architettonico. Fu allora che emersero le difficoltà, quando cioè la necessità di una loro interpretazione non trovò riscontro né nella chiarezza delle fonti e né tantomeno nella potenza evocativa delle rovine, gravemente sfigurate. Allo stato in cui vertevano già agli inizi del XXI secolo, nella loro evidenza fisica, della chiesa di Santa Maria non v’era che un edificio gravemente danneggiato e pertanto da restaurare; del Duomo di Siponto solo un’indistinta sopravvivenza, privata nel tempo di tutti i suoi arredi. Il sito dovette presentarsi depauperato e in gravi condizioni di degrado almeno fintanto che, allo scopo di garantire un’adeguata conservazione al prezioso lacerto di mosaico situato nella zona presbiteriale della Basilica, non scaturì la richiesta di un finanziamento per la realizzazione di una serie di interventi.
Dall’intesa tra l’allora soprintendente della regione Puglia, Luigi La Rocca, e l’architetto Francesco Longobardi, furono avviate una serie di operazioni che avrebbero dovuto rendere tutti i reperti della zona adeguati agli standard conservativi, ma soprattutto permettere una fruizione ottimale del sito attraverso un’attualizzazione quanto più possibile accessibile e comprensibile dei resti. Con i fondi stanziati dal finanziamento POIn,3 ebbero luogo la disinfestazione e rimozione della vegetazione in esubero presente sui reperti dell’area, a seguire azioni di carattere meramente conservativo e di consolidamento della chiesa di Santa Maria Maggiore. L’area fu quindi dotata di zone di sosta e di pannelli informativi, nonché di un percorso di visita che rendeva attraversabile il perimetro esterno di localizzazione del complesso monumentale romanico e paleocristiano, unica attrazione veramente leggibile rispetto alle zone spoglie e brulle del terreno su cui si estendeva originariamente la città.
Elaborate le modalità d’intervento da attuare sulla zona delle rovine di primo impianto, si lavorò al progetto cosiddetto “prima del progetto”, ovvero quello della realizzazione di un’imponente copertura metallica concepita con funzione protettiva dei resti. Munita a tal scopo di un sistema di regolazione del deflusso delle acque, sarebbe stata posizionata nella zona prospiciente le decorazioni musive; tuttavia, nella forma e nella grandezza in cui era stata concepita, la copertura avrebbe prevalso sui fragili reperti e la ringhiera della passerella, prevista lungo il perimetro esterno delle preesistenze archeologiche, avrebbe ostacolato la percezione e impedito l’attraversamento fisico del rudere.
La ragione per cui tale ipotesi progettuale fu scartata all’unanimità dovette evidentemente risiedere nella convinzione dell’inefficienza che avrebbe potuto apportare un intervento finalizzato all’esclusivo esercizio di tutela. La soluzione prospettata non avrebbe apportato altro che un ulteriore danno, a discapito della comprensibilità e della valorizzazione del sito. E, se la circostanza fu ritenuta idonea a discutere circa la fattibilità di una proposta integrativa della materia del resto, è indubbiamente sintomatico di un progresso rispetto a quella tendenza del XX secolo alla separazione tra “cultura progettuale del nuovo e […] quella conservativa”.4
Negli anni è notevolmente accresciuta la consapevolezza del fatto che niente, tantomeno la conservazione, possa congelare le cose e i luoghi in una sorta di condizione di sospensione dal tempo. Anzi, è proprio il caso di dire che ancor prima di ogni voluta integrazione, di per se stessa “la conservazione trasforma il luogo che vorrebbe conservare proprio perché lo conserva”.5
Così, si arrivò finalmente alla conclusione che l’eventualità di poter restituire allo spazio la percezione dei volumi e degli ambienti architettonici dell’antica Basilica, non ripristinando il corpo dell’edificio bensì incorporando la figura del rudere, fosse la più opportuna allo scopo. L’idea sarebbe scaturita da un caso particolarmente affine, che indubbiamente rappresenta l’archetipo per il cantiere di Siponto.
Si tratta del progetto dell’architetto Francesco Ceschi che, nel 1992, portò alla realizzazione dell’installazione per il sito archeologico di Veio. La struttura, sorretta mediante un sistema di rinforzi poggiati sull’originario basamento lapideo, ricalcava le preesistenze archeologiche alternando zone integrative in metallo ad altre di reimpiego dell’originaria trabeazione e del frontone. Ne risultava un simulacro di straordinaria forza evocativa, interamente basato su un’ipotesi ricostruttiva del Tempio di Apollo, capace di ricreare la percezione dei volumi dell’antico edificio tuscanico.
Proprio l’idea di conferire verticalità alla rovina dovette rappresentare la ragione per la quale il lavoro di integrazione fu commissionato all’artista Edoardo Tresoldi, che, nel febbraio del 2015, poggiò sulle preesistenze paleocristiane della Basilica il primo rinforzo per la sua imponente struttura in rete elettrosaldata di 7 tonnellate per 14 metri di altezza.
Il problema della rovina, ovvero quello che la rovina non dice
Occorre fare un passo indietro, poiché è tutt’altro che scontato che la vexata quaestio sul difficile rapporto tra progetto contemporaneo e preesistenze archeologiche si sia risolta a Siponto con l’affidamento dell’incarico ad un’artista.
Con l’opera Incipit, presentata nel 2015 nell’ambito della rassegna di arte contemporanea “Meeting del Mare”, Tresoldi introduceva al pubblico l’archetipo della visione assoluta che, di lì a poco, si sarebbe compiuta con l’intervento per Siponto. In quell’occasione, l’opera valse da dichiarazione di intenti e rappresentò un vero manifesto del meccanismo di dispiegamento della “Materia Assente” applicabile al progetto architettonico. L’artista stesso ha introdotto tale nozione per descrivere il risultato fisico del suo processo creativo, nonché la potenzialità mediante cui la superficie diafana delle sculture sarebbe in grado di autodeterminare la propria esperienza, a posteriori, mediante la capacità di plasmare la materia circostante. Incipit rappresentò l’atto primario e l’aspetto originario di una forma unicamente scolpita nelle mani dell’autore, ma affidata all’immaginazione di quanti poterono farne esperienza, al paesaggio che incessantemente la modificava nelle sue continue trasformazioni e alle mani del tempo, “grande scultore”.6
Da quel momento sarebbe stato ipoteticamente possibile riproporre tanto la percezione di un volume scomparso, confacente alla circostanza di Siponto, quanto quello di uno mai costituitosi. E la presa di coscienza della portata di questa scoperta non tardò ad arrivare.
Tuttavia è necessario guardarsi bene dal trarre conclusioni semplicistiche, giacché la questione relativa alla riprogettazione di edifici in rovina va trattata con estrema cautela. Nel confronto con la rovina incontriamo noi stessi e il nostro passato, e il rischio di danneggiarne irrevocabilmente la sopravvivenza è alle porte ogni qual volta si parla di reintegrazione e riqualificazione. Non è un caso, infatti, che la prassi vigente preveda il mantenimento del rudere nello status quo,7 e che siano guardate con biasimo le operazioni di ripristino stilistico, o di anastilosi.
Se la ragione dell’equivoco rispetto all’impossibile recuperabilità della rovina affonda le sue radici nel gusto tipicamente romantico della contemplazione delle vestigia del passato, certamente l’equivoco si è rafforzato laddove ha incontrato il discorso sul restauro e precisamente allorquando la sola conservazione non è stata in grado di “reintegrare la visione e il godimento”8 mediante la fisicità della sopravvivenza. Dalla perdita dell’unitarietà progettuale e dei connotati stilistici, all’aniconicità e, nel peggiore dei casi, alla quasi assoluta assenza dei volumi come nel caso della Basilica di Siponto, tutto ha concorso nel tempo all’inafferrabilità della vera essenza del resto.
Di qui infatti la visione contemporanea della rovina come memento mori e metafora della nostalgia. Sempre che non coincida addirittura con un’immagine totalmente negativa: dicasi cosa “rovinata” quella di cui ci si può disfare definitivamente poiché ha esaurito la propria funzione. Proprio in questo punto si sarebbe originato il malinteso secondo cui la rovina avrebbe esaurito il suo scopo in concomitanza con la perdita della sua funzione e della sua originaria unità.
In quest’ottica l’approccio metodologico non avrebbe più come finalità quella di ristabilire le funzioni e l’aspetto che erano proprie dell’oggetto al momento precedente la perdita (come per esempio accade nel restauro dei dipinti) e né tantomeno di ripristinare (stilisticamente), restaurare o reintegrare l’assenza nella forma presunta. Il progetto avrebbe come unico scopo quello di favorire l’apparizione della rovina stessa per comprendere la sua funzione nel presente, e afferrare il senso della presenza incarnata dalla materia fisica del resto attraverso l’annessione della stessa alla spazialità contemporanea.
La domanda cruciale pertanto sarebbe: che ne è della presenza manifesta della sopravvivenza? Cos’è cioè la rovina, ancora prima di essere metafora dell’assenza? E in che modo può acquisire la forza espressiva del “progetto architettonico” in cui rientra?
La rovina oltre il decadimento della materia: dal Cretto di Gibellina alla Basilica iconoclastica di Edoardo Tresoldi
Il problema della rovina è in parte il problema di tutti i luoghi che non riescono a manifestare altro che il vuoto inferto dal trauma.9 Lo spettacolo del declino inscenato nell’incontro con i resti del passato si riduce insomma allo spettacolo e all’esperienza della caducità e della morte. Ma la ragion d’essere della rovina non può esaurirsi in questo. Il fatto stesso che non tutti gli edifici siano sopravvissuti alla forza distruttiva del tempo, e che non tutti i ruderi siano la sopravvivenza di edifici maestosi, legittima il valore del “resto” nella sua presenza attuale. Per esempio, può capitare che un edificio acquisisca in un secondo tempo la nobiltà e la forza espressiva che non gli erano propri nella fisicità a cui originariamente apparteneva. Il celebre Cretto di Alberto Burri costituisce un caso lampante.
Come è noto, nel 1968 la Valle del Belice, in provincia di Trapani, fu colpita da un terremoto distruttivo e la città di Gibellina fu ridotta in macerie. A non molti chilometri di distanza venne poi avviata la rifondazione della “nuova Gibellina” per la quale l’allora sindaco Ludovico Carrao, con il prezioso contributo di Leonardo Sciascia, ideò un coraggioso progetto di promozione culturale. La Porta del Belice, la costruzione del Teatro di Pietro Consagra, la Torre civica di Alessandro Mendini e la Montagna di Sale di Mimmo Paladino sono solo alcuni tra i circa 2000 interventi realizzati per l’occasione, taluni pensati per il tessuto urbano, talaltri per il Museo di Arte Contemporanea della nuova città.
Chiamato a partecipare e giunto in Sicilia nel 1981, in principio Burri respinse la possibilità di intervenire su quel terreno già saturo di opere. Il suo Cretto fu pensato per coesistere con la zona rasa al suolo dal sisma: di quel cumulo di macerie e di ruderi avrebbe fatto un blocco unico di cemento, armato a dovere. Stabiliti i nuovi percorsi, debitamente delimitati da blocchi perimetrali quadrangolari di un metro e mezzo circa d’altezza, furono demoliti i muri pericolanti e amalgamati al cemento insieme al resto delle macerie. Una volta imbrigliati all’armatura, una gettata per le mura perimetrali e una di colmatura con calcestruzzo di cemento “aquila bianca” avrebbe restituito unitarietà ai frammenti.
Se oggi, camminando lungo il percorso segnato del cretto, è possibile rivivere l’esperienza drammatica del terremoto, è nel polimaterismo e nel policromatismo delle mura perimetrali, e nella craquelure delle superfici, volutamente messa in risalto dalle casseforme. È così che la materia del resto acquisisce dignità e si manifesta come presenza.
Le analogie con la storia di Siponto sono lampanti, e affini sono le modalità di approccio nei confronti del “resto”. Differiscono chiaramente il contesto archeologico e l’appartenenza del rudere al novero dei beni culturali che, considerata l’immediata prossimità delle sopravvivenze archeologiche, impongono all’artista di tenere un comportamento cauto rispetto alle scelte da adottare. In entrambe i casi, però, “il decadimento della materia non viene solo accettato, ma ideologicamente esibito”.10 La contaminazione diviene strumento al servizio della valorizzazione della rovina e il paradosso generato dalla convivenza di luoghi lontani nel tempo suggerisce, “con la loro incongruità, un certo tipo di verità”.11
Sulla scorta di questa intuizione, il disegno di una nuova “Basilica”, o piuttosto di una sua immagine “iconoclastica”,12 iniziava a prendere forma.
Se a tutt’oggi l’aspetto originario dell’edificio resta ignoto, è chiaro che l’immagine conferita alla struttura è il risultato di un’interpretazione personale dell’artista. A tal proposito il tecnicismo di un’epoca come quella paleocristiana e la vicinanza, sia fisica che temporale, alla chiesa di Santa Maria Maggiore valsero da indizi a partire dai quali Tresoldi poté definire ambienti e volumi. Ma al di là di questo, al di là cioè di come le emergenze architettoniche possano avere influenzato le scelte dell’artista nel “raccontare filologicamente il monumento”,13 il discorso non può ridursi alla sola funzione commemorativa.
Varcata la prima recinzione archeologica e percorso il sentiero tracciato sul terreno si accede, mediante un ulteriore recinto e una rampa di scale, al piano entro cui sono convogliate le rovine. Nella posizione di inferiorità rispetto alla superficie, la zona rimarca l’anacronismo dei reperti e la temporalità passata a cui la vicinanza della cripta e la materia fisica del resto alludono. Qui, a partire dal registro inferiore, può articolarsi un discorso legato alla storia del monumento come testimonianza, poiché è in ragione della prossimità con la matrice rappresentata dalle tracce archeologiche, ovvero dal luogo che ha creato l’impronta e su cui si è istituito il contatto con il nuovo, che nasce la somiglianza dell’installazione con la Basilica paleocristiana.14 Il fatto che l’alzato si sia sviluppato sulle tracce del rudere, in definitiva, ha rappresentato una promessa di somiglianza della forma in quanto essa è stata dedotta dalla planimetria della preesistenza archeologica.
Ma la Rovina Metafisica, intesa “come ulteriore stadio del ciclo vitale architettonico” secondo la definizione stessa dell’artista, “è un percorso da agire”,15 un’esperienza che sta dentro e ben oltre lo spazio materico della rovina.
Tresoldi ha lavorato al progetto come uno scultore modella le forme plastiche delle sue creazioni, studiando le possibilità tecniche perché la sua idea potesse adattarsi alla topografia dei resti, non successivamente ma in concomitanza con la conoscenza e la percezione dello spazio. E così infatti vanno intese le sette sculture antropomorfe in rete che l’artista ha inserito sul terreno di calpestio delle preesistenze, proprio laddove ha “conosciuto” la chiesa mentre la costruzione assumeva un corpo.16 Allo stesso modo il visitatore, immedesimandosi nell’atteggiamento di alcune di queste figure, e con la calma e il rispetto a cui invita la sacralità dello spazio, sarà portato a reclinare lo sguardo verso quel suolo così fortemente rappresentativo. Laddove nella fissità del terreno potrà avere luogo una profonda e appagante sintonia con il passato, diversamente la consapevolezza della rovina nella sua interezza verrà acquisita all’unisono con la progressiva percezione dell’ascensionalità dell’installazione, ovvero non appena si sarà compiuto “il salto del metà”.17
L’occhio e il corpo, in un climax di inattese scoperte, procederanno di pari passo con la risalita della materia della rete metallica che, in netta contrapposizione con la terrosità dei resti, trabocca dal corpo del rudere. Lì, nella verticalità e nella lontananza fisica dalla matrice e nel momento stesso in cui si sarà realizzato il ricordo, l’aria diverrà lo spazio predisposto all’autentica creazione e all’ascolto ossequioso del silenzio del paesaggio. Il “non finito” della rovina, ovvero la perdita a cui allude lo stato di incompletezza, diverrà il vuoto e il luogo preposto al “non finito” della creazione. Sarà l’osservatore stesso nell’incontro con l’opera, e grazie allo sforzo dell’artista di “sottrarre meno spazio fisico possibile al paesaggio”,18 a poter completare l’immagine laddove siano presenti delle interruzioni strutturali.
Dall’ambiguità degli ambienti architettonici che hanno ceduto parte della loro corporeità al paesaggio, ai basamenti dei pilastri della “navata” sinistra su cui non si sviluppa l’elemento verticale della rete, al tetto che è solo parzialmente riprodotto nella discontinuità delle assi della trabeazione, tutto gli ricorderà che la Basilica non è più veramente una Basilica, ma piuttosto l’altra metà della rovina. Non più somiglianza di un’inarrivabile distanza con il passato e “memoria dell’aria”,19 ma alba di un’immagine nuova.
Rappel à la nature, un inno alla sacralità del paesaggio
L’installazione, attraverso la mancanza di ornamento e la semplicità del materiale volutamente distante da quello dell’edificio originario, sottolinea la perdita delle funzioni previste nell’originario progetto architettonico, rifuggendo ogni segno ulteriore che non sia della natura. Laddove, per esempio, la simbologia religiosa vede nella forma del catino absidale la metafora del ventre della Vergine che accoglie il corpo di Cristo, in quel luogo e a quel tipo di riflessione, ne subentra una nuova. Non più spazio preposto a contenere l’altare e il tabernacolo eucaristico, l’abside certamente rimarca la presenza del pavimento musivo, ma crea altrettanto un inedito legame con il retrostante Pinus Halepensis, specie secolare e distintiva del territorio. Nullus locus sine genio, scriveva Servio.20
Così, distante dalla sua storia ma mai dal luogo che oggi la accoglie, la grigia nudità della struttura rivela una sacralità differente, non più religiosa, ma che piuttosto risiede da sempre nel paesaggio.
Alla maniera delle spazialità concettuali e iconiche delle Cattedrali Vegetali di Giuliano Mauri o degli Igloo di Mario Merz, la Rovina Metafisica di Tresoldi, non solo sfrutta la neutralità degli spazi e il ricorso agli archetipi architettonici, ma trasforma in valore la contraddizione che si genera nell’incontro tra l’artificialità della maglia quadrata e la naturalità del paesaggio. “Incorporata, non restaurata, è rovina allo stato puro, diventa fonte di informazione, in quanto contiene le impronte del tempo, allo stesso modo di un bel viso rugoso”. Ora, nella sua interezza “è, in definitiva, presente”.21
Intervista a Edoardo Tresoldi
Riproponendo la celeberrima nozione di opera aperta introdotta da Umberto Eco, possiamo essere inclini a pensare che l’esperienza individuale che si attua nell’incontro con un’opera come questa possa contribuire alla sua stessa creazione. Ma non è casuale la scelta di avere focalizzato l’attenzione sull’aspetto di natura prettamente progettuale e sulle questioni di carattere ontologico relative alla “rovina” a discapito dell’analisi del monumento in sé. Ogni interpretazione, anche se accreditata da un giudizio condiviso, rischierebbe di alterarne il valore. D’altra parte, considerando la valenza “aperta” dell’opera (in senso non solo metaforico ma anche letterale), un’esposizione eccessivamente descrittiva avrebbe confinato il significato reale dell’intervento entro i limiti materiali da cui l’atto creativo ha inteso, invece, liberarlo.
A questo punto, solo le parole dell’artista sono in grado di restituire fino in fondo il senso autentico del suo intervento sulla Basilica di Siponto.
Carmen Innaco: Pensi che il progetto di natura ministeriale abbia limitato la tua libertà di espressione? Quali sono state le condizioni che hai dovuto rispettare?
Edoardo Tresoldi: Penso che quello di Siponto sia stato un progetto quasi “perfetto” sia per la struttura che per le persone che ci hanno lavorato. Spesso i lavori di natura ministeriale sono associati a dimensioni limitanti, soprattutto dal punto di vista artistico, ma a Siponto non è stato così.
In questo caso i protagonisti dell’intervento e i responsabili del Ministero – il Soprintendente Luigi La Rocca e l’architetto Francesco Longobardi – si sono dimostrati professionisti molto aperti e curiosi, che hanno voluto costruire insieme una “saggia prima volta”.
Ci siamo messi insieme a lavorare e ognuno di noi è andato oltre ai doveri o alle responsabilità legate al proprio ruolo. Come artista, tenevo molto (come tuttora), a portare il massimo rispetto per il luogo in cui intervenivo; quella era la prima volta che lavoravo in un’area archeologica, quindi per me è stata una grande emozione poter lavorare su un luogo e sulle pietre che parlavano da tanto tempo. Da parte mia c’era la necessità di trovare dei compagni di viaggio che sapessero introdurmi, spiegarmi un linguaggio e una metodologia di approccio a un luogo così importante. Tutti eravamo consapevoli che stavamo realizzando qualcosa che non era mai stata fatta, c’era forte emozione nel cercare di capire come potesse funzionare, né sapevamo tantomeno cosa potesse generare dopo. C’è stata anche un po’ di paura, soprattutto da parte degli archeologi, che l’operazione non fosse capita; dall’altra parte queste sensazioni si alternavano a forti emozioni guardando la Basilica nascere e prendere forma. Direi che più che limiti, ci sono state riflessioni. Molti si sono chiesti se poteva bastare ricostruire un’architettura per associarla a un’operazione artistica. In realtà, mentre facevamo quelle riflessioni, tutto stava prendendo forma. Penso che tutte le persone che hanno vissuto la ricostruzione della Basilica di Siponto dall’inizio alla fine la ricorderanno come una delle esperienze più forti ed emozionanti della loro vita, e per me è così.
C. I. – Tua cifra identitaria è senza dubbio l’uso del metallo intrecciato in rete. Gli effetti di trasparenza e di illusionismo che generano i tuoi oggetti sono quasi sempre funzionali a suggerire un nuovo sguardo sul contesto che lo circonda, che sia esso visibile o invisibile agli occhi. A proposito dell’invisibile, cosa intendi quando parli di “assenza di materia”?
E. T. – Ho definito l’uso della rete metallica come Materia Assente: la rappresentazione di una proiezione mentale, filtro e forma attraverso cui raccontare luoghi, istanti, enti.
Il linguaggio della trasparenza che porta con sé ha la capacità di tessere nello spazio il lato immateriale delle cose, rende plastica la negazione della materia e rivela il risultato di una mancanza, quindi l’astrazione della realtà e la sua identità visiva senza riferimenti nel tempo.
La Materia Assente innesca dialoghi ininterrotti con lo spazio e la storia, proiettando la sostanza dell’oggetto in un’inedita estensione temporale; ciò che è dissolto, o non è mai esistito, rivive in un tempo non suo.
I ritmi spezzati della trasparenza generano continue sequenze di astrazioni e punti di vista amplificati mentre la luce e fattori atmosferici ne determinano la leggibilità in situazioni sempre diverse. L’insieme dà vita a uno spazio dinamico e cangiante nel quale diventa possibile accedere a una dimensione pura, eterea, in dialogo continuo con l’ambiente contemporaneo, inteso come contaminazione di codici culturali, sociali e identitari, i cui atti diventano parti costituenti dell’opera.
C. I. – Della Basilica è nota effettivamente solo la pianta perimetrale, rimasta pressoché inalterata dalla fondazione dell’edificio paleocristiano, pertanto si ignora totalmente il suo aspetto esterno, quindi qualsiasi conformazione conferita alla struttura metallica, quand’anche dietro suggerimento di archeologi e storici dell’arte, manterrebbe carattere rigorosamente ipotetico. Su quali basi hai immaginato la forma di questo involucro?
E. T. – Il fatto che la Basilica fosse paleocristiana è stato d’aiuto perché è stata un’epoca estremamente “tecnica”. Avendo avuto più fasi, la chiesa presentava delle unicità (ad esempio le colonne tangenti ai pilastri), inoltre è stata modificata più volte nei secoli a venire e ciò ha determinato anche una mescolanza con elementi romanici che non abbiamo potuto definire. Attraverso un confronto con altre basiliche siamo riusciti a individuare un range di metriche all’interno del quale muoversi, da lì c’è stata una scelta e un’interpretazione personale, dovuta a necessità costruttive.
Sicuramente la cosa necessaria – aldilà di come questo tipo di esperienza abbia la capacità di raccontare filologicamente il monumento – è che non deve esaurirsi in questo. È importante che gli ingombri e gli spazi rientrino all’interno di metriche possibili, ma come succede con le storie tramandate o che non siamo in grado di definire attraverso documentazioni esatte, subiscono un’interpretazione. Nel mio caso un’interpretazione di un artista nel raccontare il luogo e lasciare che sia il luogo stesso, influenzandolo, a definire determinate forme e linguaggi. A Siponto mi sono preso la libertà di inserire sezioni e squarci all’interno per rimarcare l’aspetto interpretativo dell’operazione.
C. I. – Laddove ne avevi la possibilità, perché nel riportare in vita la memoria della Basilica hai preferito restituire l’immagine di una struttura incompleta?
E. T. – Lavorando con la trasparenza riesco a sintetizzare ancora di più la forma e a definire l’identità e la fisicità del monumento inserendo pochi elementi, rubando meno spazio fisico possibile al paesaggio e al luogo. Inoltre, se alcuni elementi fossero arrivati fino alla Basilica romanica, probabilmente avrebbero fuso i due monumenti in modo da limitarne l’individualità.
Il fattore importante – fisico ed esperienziale – è che si possa “spegnere” una chiesa e “accenderne” un’altra, dando il giusto spazio al fruitore per poter ricostruire mentalmente alcune parti, ma fornendo comunque degli elementi di partenza.
Mi sono divertito nel cercare di interpretare degli spazi attraverso alcuni elementi, ad esempio le campate della navata di destra, che corrono da sole come un acquedotto che si srotola verso un’altra chiesa.
Una volta ricostruito il cuore principale della chiesa, e quindi quegli elementi che ci permettono di riconoscere la Basilica paleocristiana, ho cercato di comporre e scomporre gli elementi restanti come uno scultore puro, generando degli spazi che potessero essere espressivi e creare delle tensioni piuttosto che dei vuoti, potendo comunque raccontare il luogo attraverso la mia personale interpretazione.
C. I. – Possiamo considerare la trasparenza e l’assenza della materia oggettuale funzionale alla trasmissione di un’idea di presenza della sacralità?
E. T. – Provengo dalla Brianza, un’area che negli ultimi decenni ha subito un’intensa e violenta urbanizzazione. Crescendo, i luoghi della mia infanzia cambiavano vertiginosamente; lì è nato il mio interesse per il paesaggio, le sue dinamiche e i suoi linguaggi. Ho imparato a riconoscere il mio genius loci di provenienza nelle contrapposizioni e a valorizzare la contaminazione come un valore, fattore che successivamente si è rivelato fondamentale nel mio lavoro.
La trasparenza, sommata al ricorso agli archetipi architettonici classici come archi, colonne e cupole, è un linguaggio per celebrare la sacralità del rapporto tra uomo e natura: la sua maestosità ma anche la sua intimità ancestrale.
C. I. – Soffermandoci ancora sulla trasparenza, la vuotezza dei volumi e l’assenza materiale del colore danno luogo a una sorta di discorso muto della struttura. La presenza delle icone sacre ha sempre contraddistinto i luoghi cristiani d’occidente, nella tua Basilica invece l’aniconicità e l’assenza di oggetti reinventano la funzione originaria di questo luogo. A tuo avviso cosa, se non una croce o un altare, è in grado di comunicare egualmente la sacralità che si percepisce in questo luogo?
E. T. – Credo che la sacralità e la sua percezione viaggino su binari intimi e personali generati dalle sensazioni che l’essere umano prova in determinati luoghi e circostanze. Una percezione quindi altamente soggettiva, anche se filtrata dal retaggio culturale di appartenenza.
Per noi occidentali, cresciuti e formati nella cultura cristiana, la croce è il simbolo che ha assorbito e incanalato fortemente l’espressione del sacro. Il mio lavoro cerca invece di raccontare la sacralità non attraverso simboli, ma tramite percezioni più svincolate, legate a elementi spaziali.
L’architettura sacra mi ha permesso di esprimere la mia forte propensione verso il sacro negli elementi naturali; gli archetipi sacri non sono legati solo alla religione, ma sono quasi elementi istintivi della necessità espressiva umana nel raccontare il sacro. Penso, ad esempio, a un catino absidale, che inconsciamente riporta al linguaggio del ventre piuttosto che all’idea di porsi di fronte a una forma architettonica che celebra qualcosa ponendola al centro.
Il mio percorso è legato non tanto all’interesse nel generare nuovi simboli e icone, ma al riuscire a capire e decodificare forme, spazi e architetture spogliandoli dei loro significati specifici culturali per arrivare a una sintesi della relazione esperienziale tra l’uomo e questi elementi.
Quando riconosciamo il sacro in un luogo al quale siamo legati ci fa sentire parte del mondo, viceversa quando non riusciamo a riconoscerlo ci sentiamo persi. La sacralità diventa quindi quella porta che ci rende connessi al mondo. Quello che cerco di fare con il mio lavoro è mettere una lente di ingrandimento su queste porte e generare luoghi in cui le persone riescono a riconoscere il sacro.
C. I. – Ogni artista ha percepito la terra e il cielo in un modo che lo ha poi condizionato nella costruzione della sua opera, egli cioè ha percepito ed è stato condizionato dall’ispirazione che gli veniva dal genius loci. Ti ho sentito spesso fare ricorso al concetto di genius loci, cosa intendi e dove ricerchi nel paesaggio questa entità soprannaturale?
E. T. – Sento fortissimo il richiamo e il fascino dei luoghi, nei quali mi immergo provando a “comprenderli”. Nello strutturare un intervento prendo in considerazione ogni aspetto fisico, culturale e sociale: le componenti materiali e immateriali del sito diventano una parte fondamentale del lavoro.
Nella Basilica di Siponto, ad esempio, si sono attivati rapporti interessanti tra l’abside della Basilica e l’albero dietro di essa. Nella progettazione di un’architettura tradizionale è un tema che non sarebbe stato preso in considerazione. Qui è diventato un fattore vincolante, un elemento che ha influenzato metriche e composizione.
C. I. – In che modo pensi che la forma della tua Basilica esprima il contesto della società a cui si riferisce?
E. T. – Non la forma, ma l’esperienza e la testimonianza della Basilica hanno espresso fortemente un legame con la società contemporanea: l’essere riusciti a generare un’esperienza inedita che abbia intercettato la necessità delle persone di scoprire il nuovo o di essere stimolate da qualcosa capace di mescolare alcuni punti fermi.
Vivendo in un paese come l’Italia, abbiamo un rapporto continuo con l’archeologia, vissuto nello stesso modo in cui ci relazioniamo con i nostri avi e con la nostra struttura culturale. Quando un intervento ha la capacità di essere contemporaneo dialogando al contempo con l’antico, si crea una sinergia appagante; ci dà la possibilità di poterci relazionare con un passato che in qualche modo non ci schiaccia nel suo essere perfetto, nel suo essere più “alto” rispetto a noi, ma con il quale riusciamo a parlare a volte la stessa lingua.
Credo inoltre che l’esperienza a Siponto sia stata importante perché ha racchiuso una serie di linguaggi legati ai materiali e alla società industriale che ha fatto sempre fatica a relazionarsi con il patrimonio storico e quando l’ha fatto, è andata fortemente a contrasto, ponendosi per quella che è la sua natura: netta, razionale, dura, tagliente, priva della forza poetica della storia.
La Basilica di Siponto è stata in grado di parlare un linguaggio un po’ più aulico e legato agli archetipi architettonici. Un ritorno al classico ma attraverso una fisicità leggera e spontanea, come può essere l’applicazione del pensiero contemporaneo nella società liquida.
C. I. – Mi sono chiesta in che modo uno scultore che lavora nello e con lo spazio potesse apporre una firma alla sua opera. La mia personale idea è che quelle figure antropomorfe siano impronta del tuo corpo e traccia dei tuoi pensieri, e che abbiano per l’appunto, tra le altre cose, funzione di rimarcare l’autorialità, oltre che quella più immediata di permettere ai visitatori una sorta di identificazione individuale. Mi autorizzi a pensarla in questo modo? Qual è la tua personale visione?
E. T. – La tua interpretazione è fondamentalmente giusta. Fin dal primo momento in cui ho iniziato a realizzare le figure, prima di arrivare alla forma o alla posizione che volevo, ho cercato di vivere e percepire l’esperienza di un luogo e poi di raccontare uno di quei momenti, di cristallizzarli in quel modo. Effettivamente l’idea di impronta del mio corpo e traccia dei miei pensieri è esattamente quello che ho sempre inteso attraverso la figura: io creo una traccia e quella traccia, che è una figura, diventa un altro personaggio. Non è più me, ma una sorta di mio “io” del passato rimasto cristallizzato in un momento.
Attraverso il legame empatico che si crea con il personaggio, il fruitore riesce a entrare in una chiave di lettura specifica con cui leggere lo spazio. A Siponto volevo raccontare quel luogo: mi sono immedesimato nel visitatore e ho pensato che creare, o rimarcare, una intimità con quel posto potesse essere una sorta di mio “consiglio” personale nei confronti dei visitatori, una chiave di lettura che tenevo a inserire.
Quando li ho posizionati per la prima volta ho deciso di inserirli in determinati punti forse perché erano i punti in cui ho “conosciuto” la chiesa mentre la costruivo. Erano piccoli istanti di crescita della relazione che c’è stata tra me e quel luogo. Questa è la mia visione personale.
Ragionando più a freddo, credo che sia stata più una necessità di vedere lì dentro qualcuno che sposasse o vivesse quel posto nello stesso modo in cui l’ho vissuto io. Tornando indietro probabilmente non avrei inserito quegli appunti, quelle sculture, ma avrei lasciato parlare l’architettura di per sé. In quel momento però non ero ancora abbastanza sicuro su come quella struttura potesse parlare, era il progetto più grande che avevo fatto fino a quel momento, avevo bisogno di qualcuno, o qualcosa, che facesse capire quale fosse la mia idea di quella sacralità.
C. I. – Perché in numero di sette? E perché occupano esclusivamente lo spazio delle navate?
E. T. – Il numero principale che mi ha accompagnato nel percorso di Siponto è undici. Tutti i rapporti principali sono di undici piedi romani: il raggio dell’abside, la larghezza delle navate.
Che le figure siano sette è invece una questione di fatalità. Inizialmente avrebbero dovuto essere nove non perché avevo deciso quel numero, ma perché nove erano i momenti che volevo raccontare. Poi, quando ho iniziato a posizionarle, mi sono reso conto che non ne servivano più di sette in quel momento. Le altre due sono state posizionate altrove. Se decido di scartare qualcosa, la conservo o faccio sì che venga messa in un altro posto perché ritengo che anche l’individuazione di una sorta di “numero perfetto” comprende il fatto che ci siano degli scarti, ed eliminare gli scarti non mi appartiene, preferisco che anche all’interno di un numero perfetto rimanga sempre il suo scarto.
In generale tendo a non inserire dei numeri forzatamente, ma sono molto attento a capire quali escano fuori dai lavori e se ce ne sono di ricorrenti negli interventi e nel percorso che faccio nell’intervenire in un luogo.
C. I. – Osservando l’intera struttura da una distanza rilevante si ha una percezione totalizzante della Basilica, un’illusione di interezza; se soffermiamo invece l’attenzione sui suoi singoli elementi si percepisce l’inganno della trasparenza, dell’evanescenza della struttura. Per esempio un “muro” portante è formato da diverse sezioni. Queste sezioni hanno una funzione strutturale, oppure sono finalizzate ad alimentare giochi di luce e quindi ad assolvere una mera funzione di resa percettiva?
E. T. – Una deriva dall’altra. Sicuramente le sezioni all’interno dei muri portanti, più fitte in alcuni punti che in altri, rispondono a una necessità tecnica.
Dall’altra parte quello è esattamente il linguaggio che costruisce il mondo fisico della trasparenza, alcuni elementi sono più grandi perché portanti e li percepiamo molto più “presenti”, altri decorativi o secondari possono permettersi di essere più delicati.
Questo modus operandi ha generato l’estetica stessa di tutta la Basilica, cioè il fatto che visivamente ed esteticamente risponda fisicamente a necessità strutturali.
C. I. – La presenza dei vuoti propria della superficie traforata della rete è colmata dai pieni che costruisce la nostra immaginazione. Trovo che ci sia una linea sottile che lega il ricorso alla forma del quadrato nei vari periodi della storia dell’arte. Mi domando: esiste un motivo particolare per cui hai scelto questa dimensione della maglia quadrata? Intendi con tale forma geometrica inquadrare qualche particolare porzione dello spazio?
E. T. – Sì, istintivamente il quadrato è una forma assoluta nella quale mi sono sempre riconosciuto. Ho sempre sposato l’idea che il cerchio appartenesse a una dimensione più divina, mentre la sintesi formale della mente umana applicata allo spazio fosse il quadrato, il cubo e le altre forme quadrangolari. Ovviamente la concezione di regolarità ed estrema razionalità di questa forma è figlia degli studi classici, di quelli vitruviani e leonardiani.
Penso che su di me ci sia anche l’influenza dello spazio metropolitano composto da edifici fatti di piani orizzontali e verticali. Questo tipo di influenza ha generato in me la necessità di raccontare storie vive, organiche e naturali inquadrandole all’interno di un recinto mentale originato dal quadrato.
Trovo molto affascinante la sua scomposizione: l’incontro dei piani orizzontali e verticali del quadrato con il mondo organico è una sintesi dei filtri che l’uomo crea nell’applicarsi al mondo in cui vive.
La scelta della rete a maglia quadrata è invece arrivata un po’ da sé, in modo automatico, in quanto rispondeva a necessità narrative.
C. I. – Da cosa è stata determinata la decisione di illuminare la struttura durante la notte, e non riproporre invece l’assenza del monumento nel momento di assenza di luce?
E. T. – Aldilà della ricerca e del racconto legati all’assenza, una parte fondamentale dei miei interventi è legata all’aspetto esperienziale ed estetico, la parte viva e contemporanea dell’essenza delle mie opere.
Il poter vivere esperienzialmente di notte quell’architettura è un momento delicato e magico. Di giorno le mie strutture di rete cambiano fortemente: cercano di lasciar parlare il paesaggio il più possibile e la sera si riprendono il palcoscenico, facendo sì che la luce ricostruisca quasi la materia che gli dà vita. Buona parte della forza e del fascino della Basilica è dovuta al fatto che la notte, grazie all’illuminazione, emoziona i visitatori e genera un momento unico, anche perché in questo tipo di interventi è importante fare rimandi, ma anche essere fortemente presenti nel contemporaneo, dichiarando che lo stiamo raccontando in questo momento.
C. I. – Una domanda strettamente connessa al tema della conservazione e del restauro. So che la tua idea di base è quella di garantire la persistenza di questo monumento per l’arco di un’intera generazione, e di lasciare che il tempo agisca naturalmente su di essa. Credi che la tua costruzione lascerà una traccia alla maniera dei reperti dell’area archeologica? Se sì, pensi che si tratterà di una traccia materiale o immateriale?
E. T. – Sono molto curioso di sapere cosa succederà nella storia di quel monumento, che nasce già come il fantasma di un monumento che non c’è più. Cosa succede quando l’esperienza diventa memoria e quando pensiamo di fare esperienza della memoria. Ci potrebbe forse essere un parallelismo con il mito, con le leggende, con le storie tramandate, con le storie che invecchiano assumendo le sfumature del contemporaneo che le ha interpretate.
Non so dire ora se la traccia che rimarrà sarà materiale o immateriale, ma senza dubbio la cosa interessante è che genererà un’estetica ancora differente dal rudere. Riguardo all’evoluzione dell’immagine di rudere, se pensiamo che buona parte delle opere del Rinascimento nascono dalla relazione degli artisti con i ruderi dell’epoca classica, ora siamo in un momento storico in cui ci relazioniamo con i ruderi della società industriale.
Come risponderà al tempo quella poca materia di cui è fatto? In quel morire genererà un’“estetica della morte” che è ancora inedita ai nostri occhi e saprà stimolare a suo tempo nuove intuizioni e nuovi spunti per un racconto poetico. Questa è una cosa che auguro a tutti i miei lavori.
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Sitografia
Cfr. Pascale (1932, p. 81).↩
Cfr. Mazzei, Fabbri (1990, p. 114).↩
Programma Operativo Interregionale “Attrattori Culturali, Naturali e Turismo – 2007-2017”.↩
Fiorani, in Balzani (2011, p. 25).↩
Violi (2014, p. 171).↩
Cfr. Yourcenar (1983).↩
Cordaro (2005, pp. 29-30).↩
Id. (2005, p. 5).↩
Cfr. Violi (2014, p. 129).↩
Vitiello (2015, p. 109).↩
Hecksher, cit. in Venturi (1980, p. 19).↩
Didi-Huberman (2002, p. 59).↩
Cfr. Intervista all’artista.↩
Cfr. Didi-Huberman (2009, p. 71).↩
Zevi (2014, p. 15).↩
Cfr. Intervista all’artista.↩
Mondin (1999, p. 9).↩
Ibidem.↩
Didi-Huberman (2002, p. 13).↩
Cfr. Bevilacqua (2010, p. 11).↩
Linazasoro, in Ugolini (2010, p. 17).↩