PsicoArt – Rivista di arte e psicologia. Vol. 8 (2018)
ISSN 2038-6184

La temporalità dell’opera d’arte e la teoria lacaniana del fantasma

Alessandro Paolo LenaIndependent Researcher (Italia)

Alessandro Paolo Lena holds an MA in Visual Arts from the University of Bologna (2018). His research interests include the temporal life and afterlife of artworks; the persistence and revival of antique modalities in Renaissance, modern and contemporary art; as well as the relations between image theory and psychoanalysis, with a focus on Jacques Lacan’s teaching.

Pubblicato: 2018-07-16

The temporality of the work of art and Lacan’s phantasy theory

Abstract

L’articolo esamina la temporalità complessa dell’opera d’arte alla luce della teoria del fantasma di Jacques Lacan, analizzando modelli temporali alternativi a quello della successione cronologica lineare: da una parte la nozione lacaniana di fantasma e il suo rapporto con la temporalità ripiegata su se stessa del soggetto; dall’altra il modello del Nachleben di Aby Warburg, nel quale le immagini incarnano il tempo discontinuo e impuro delle sopravvivenze.
[The temporality of the work of art and Lacan’s phantasy theory] This article examines the complex temporality of the work of art in relation to Jacques Lacan’s theory of phantasy. To this end, temporal models alternative to that of linear chronology are investigated: on the one hand Lacan’s notion of phantasy and its relation to the wrinkled temporality of the subject; on the other Aby Warburg’s model of Nachleben in which images embody the discontinuous and impure time of the survivals.

Keyword: phantasy; Lacan; temporality; Nachleben; Warburg

La teoria lacaniana del fantasma

La teoria psicoanalitica, come elaborata nell’insegnamento di Jacques Lacan negli anni ’50 e ’60, ci propone all’attenzione, tra le altre, la nozione di “fantasma fondamentale” che si presta ad essere indagata anche sotto il profilo dell’opera d’arte. Il fantasma, infatti, può permetterci di articolare una riflessione sulla tensione tra simultaneità e successione temporale che ponga al centro l’immagine. Non si tratta di proporre una teoria assiomatica da applicare alle opere d’arte né tantomeno di assimilarle alle costruzioni fantasmatiche. La prospettiva psicoanalitica, considerata dal punto di vista dello studio del fantasma, permette, piuttosto, di guardare ad alcuni aspetti di metodo insiti nella psicoanalisi, come pratica della parola, e confrontarli con alcuni strumenti della storia dell’arte, come disciplina umanistica che riflette sui propri oggetti di studio – le arti visive, essenzialmente non verbali – attraverso le parole, per arrivare a proporre una riflessione sui modelli temporali differenti che ritroviamo nell’immagine e nel discorso verbale.

Lacan, specie negli anni che consideriamo, insiste molto sulla necessità di ripartire dalla lezione di Freud, che la psicoanalisi post-freudiana sembra aver travisato. Anche per la nozione di fantasma Lacan riprende le riflessioni di Freud, che nel saggio Un bambino viene picchiato, presenta il fantasma come struttura impersonale e fissa.1 Lacan, tuttavia, rielabora la questione in modo estremamente originale, concependo il fantasma come uno schema inconscio singolare, caratteristico di ciascun soggetto, attraverso il quale il soggetto articola il proprio desiderio e, insieme, il proprio godimento nel tentativo di recuperare un oggetto perduto, l’oggetto piccolo a, che, proprio in quanto perduto, diviene causa di desiderio.

Nel saggio La direzione della cura, Lacan istituisce un legame tra fantasma e immagine:

una volta definita come immagine messa in funzione nella struttura significante, la nozione di fantasma non offre più difficoltà. Diciamo che il fantasma, nel suo uso fondamentale, è ciò grazie a cui il soggetto si regge a livello del proprio desiderio evanescente, evanescente perché la stessa definizione della domanda gli sottrae il suo oggetto.2

Il fantasma in quanto immagine, cioè in quanto “scena”, in funzione nella struttura significante, cioè articolata con le parole, permette al soggetto di reggersi a livello del proprio desiderio. Lo statuto di immagine del fantasma sembra definire una sua dimensione sovrastorica, una sua fissità, rispetto alla dimensione storica del desiderio, sovrastorica nel senso di ipertemporale. Anche l’opera d’arte, in quanto immagine ha una dimensione ipertemporale, in cui passato, presente e futuro si fondono gli uni con gli altri, si condensano, si compenetrano nella sintesi dell’immagine. Quando dunque parliamo del fantasma, così come quando parliamo dell’opera d’arte, indaghiamo una struttura temporale complessa, una collisione di tempi bloccati nell’immagine, che sia la scena fissa del fantasma o la forma dell’opera. La funzione del fantasma in rapporto al desiderio del soggetto è, infatti, simile “a quella del motore immobile di Aristotele: esso muove (il desiderio) senza essere mosso (dal desiderio). […] Ciò significa che, mentre la temporalità del desiderio è temporalità storica, quella del fantasma deve essere considerata sovrastorica”.3

Il fantasma si presenta, dunque, come modello “atemporale (cioè iper-temporale al punto di arrivare ad essere asintoticamente atemporale), impersonale (in quanto non rappresentato entro il circuito simbolico e non ricevuto in forma invertita) – che consente al soggetto di articolare il proprio desiderio metonimicamente nel tempo”.4 È proprio la componente ipertemporale del fantasma a definirlo “fondamentale”: esso, infatti, presenta l’attributo della costanza, come se fosse fuori dal tempo nella iper-condensazione di tempi che il suo essere “immagine” gli conferisce – costanza che consente di ancorare lo slittamento metonimico del desiderio, di fissare la trascendenza del desiderio a qualcosa, ossia all’oggetto piccolo a.5 Per Lacan l’inconscio del soggetto è strutturato come un linguaggio e segue le leggi del linguaggio. Esiste, tuttavia, una parte del soggetto che resiste a questa azione del linguaggio e si costituisce come oggetto altro all’interno del soggetto stesso: l’oggetto piccolo a (dove la “a” è iniziale di “altro”), l’oggetto perduto perché si è separato dal soggetto, l’oggetto che, in quanto perduto, diviene causa del desiderio.

Si tratta in parte della stessa lezione che possiamo trarre dalla conclusione dell’Interpretazione dei sogni, dove Freud evidenzia come in relazione al desiderio la rappresentazione onirica presenti al suo interno un’articolazione temporale complessa:

Poiché è dal passato che deriva il sogno, in ogni senso. […] Rappresentandoci un desiderio come appagato, il sogno ci porta certo verso il futuro; ma questo futuro, considerato dal sognatore come presente, è modellato dal desiderio indistruttibile a immagine di quel passato.6

Freud riprenderà proprio questo aspetto anche a proposito delle rappresentazioni fantasmatiche, delle fantasticherie, nel Poeta e la fantasia, nella celebre massima “passato, presente e futuro, come infilati al filo del desiderio che li attraversa”.7

Quando parliamo della dimensione “storica” del desiderio, non dobbiamo perciò intendere una successione cronologica lineare; il desiderio mostra, piuttosto, una struttura che si dispiega nei tre tempi dell’esperienza umana ed è proprio in questo aspetto di dispiegamento temporale che possiamo trovare il carattere “storico” del desiderio. Dall’altra parte il sogno/fantasma condensa in scene, in sequenze di immagini i tempi attraversati dal desiderio, intreccia i fili temporali del desiderio nel nodo della rappresentazione. La dimensione “sovrastorica” deriva dalla concentrazione temporale che il sogno e la scena fantasmatica presentano rispetto al tempo storico desiderio, per il loro essere immagini. In questa ipertemporalità condensata del fantasma troviamo l’ancoraggio del tempo storico del desiderio, a livello del quale “il soggetto si regge” – ossia, in termini più freudiani, il tratto “indistruttibile” del desiderio.

Lacan interpreta il fantasma fondamentale anche come “linea del destino” del soggetto8 e possiamo vedere come le caratteristiche di fissità del fantasma, la sua spinta alla ripetizione e la sua dimensione sovrastorica permettano di identificarlo davvero con il “destino” del soggetto. L’obiettivo dell’analisi è, infatti, quello di portare il soggetto di fronte al proprio destino, ossia di fronte al proprio fantasma, come luogo in cui si fissa il desiderio del soggetto: l’analisi presuppone la possibilità di una continua risignificazione retroattiva del destino del soggetto, della dimensione sovrastorica del fantasma, della ripetizione come necessità pulsionale.

Lacan, innestando il proprio discorso su una radicale lettura del Nachträglichkeit freudiano unito alla temporalità estatica dell’Esserci formulata da Heidegger, propone una realizzazione del soggetto dell’inconscio al “futuro anteriore”9 attraverso la parola analitica come elemento in grado di riannodare e intrecciare i fili del passato in modo nuovo, di risignificare nel presente le contingenze del passato e dare loro un senso rivolto al futuro: la risignificazione après coup degli eventi del nostro passato, riannodati di volta in volta in maniera inedita, costituisce la trama del nostro “destino”.

Negli anni ‘60, al termine del Seminario XI, Lacan indica proprio nell’“attraversamento del fantasma” il termine dell’analisi, individuando quale compito del processo analitico quello di portare l’analizzante di fronte al proprio destino:

[…] dopo il reperimento del soggetto rispetto all’a, l’esperienza del fantasma fondamentale diventa la pulsione. Che cosa diventa, allora, colui che è passato attraverso l’esperienza di questo rapporto, opaco all’origine, con la pulsione? In che modo un soggetto, che ha attraversato il fantasma radicale, può vivere la pulsione? Questo è l’al di là dell’analisi.10

“Attraversare il fantasma” non significa per il soggetto abbandonare la dimensione fantastica per stabilirsi solidamente in una realtà pragmatica; al contrario vuol dire accettare i limiti della realtà quotidiana alla luce della marchiatura che i significanti appongono sul soggetto. L’attraversamento del fantasma non presuppone una liberazione dall’indistruttibilità della ripetizione, quanto piuttosto l’accettazione del proprio destino di soggettivarla in una nuova significazione singolare, in modo da riarticolare la divisione del soggetto: se il fantasma impone al soggetto un vincolo in cui la relazione tra passato, presente e futuro finisce per portare ciascuno dei tre tempi a coincidere nella necessità della ripetizione dello Stesso, il suo attraversamento permette di riaprire la divisione soggettiva in modo nuovo, nell’après coup della parola analitica.

La temporalità complessa dell’opera d’arte e del fantasma

Il modello temporale complesso della relazione tra soggetto e fantasma, in quanto destino continuamente risignificato après coup nel processo analitico, può rappresentare una modalità per interrogarsi sulla temporalità dell’opera d’arte e più in generale dell’immagine. Con questo non bisogna intendere che l’opera d’arte sia un fantasma, o che la creazione fantasmatica risulti automaticamente nell’opera d’arte. Per quanto in gioco ci siano anche i contenuti fantasmatici che l’artista – in quanto soggetto – inserisce nell’opera e, dalla parte opposta, quelli immessi dal soggetto fruitore, la riflessione ruota intorno al concetto di tempo che l’opera d’arte condensa e alla sintonia tra questa temporalità complessa e quella del fantasma.

L’opera incarna nel suo presente ciò che è già stata, essendo già tutto ciò che dovrà essere e non è ancora stata. L’esplosione dei tempi concentrati nell’opera si dispiega nell’incontro con il soggetto che la fruisce: il divenire degli sguardi viventi di chi guarda un quadro permette al passato di prendere vita nell’hic et nunc della visione, e di proiettarsi verso i futuri sguardi che lo osserveranno. Guardando un quadro, assistiamo, cioè, a una continua riconfigurazione del presente delle nostre reazioni all’immagine; allo stesso tempo, un’immagine si presenta sempre come passata, come costruzione della memoria; infine, l’opera d’arte dura nel tempo, è proiettata verso il futuro e vivrà probabilmente più a lungo di noi osservatori. Questa complessa articolazione di tempi è insita nell’opera d’arte, che condensa tutti i balzi e gli spostamenti temporali in una forma, in una rappresentazione fissa, che non cambia nel tempo, la quale appare consonante al tratto di immutabilità, di costanza del fantasma. Georges Didi-Huberman sottolinea giustamente come lo stare di fronte a un quadro non significhi “soltanto interrogare l’oggetto dei nostri sguardi. Vuol dire anche fermarsi di fronte al tempo”.11

Di fronte a un’opera d’arte stiamo davvero di fronte al tempo, non nel senso della distanza storica che ci separa da un oggetto ideato e realizzato spesso centinaia di anni prima, e nemmeno perché di fronte a un oggetto “antico” cerchiamo di ricostruire il contesto storico, sociale, religioso, etc. risalendo a ritroso la supposta linea del continuum temporale, come se si trattasse di un fiume che scorre. Piuttosto, stiamo di fronte al tempo perché in essa il già-stato e il poter-essere si scontrano nel presente della visione, nell’adesso dell’incontro tra l’opera e chi la guarda. La struttura del fantasma ci offre forse un’analogia nel suo essere sovrastorico, nel senso di eternamente presente: il già-stato e il poter-essere si scontrano nel presente dello Stesso, nella dimensione apparentemente ineluttabile della ripetizione del passato nel presente (e presumibilmente anche nel futuro) che il fantasma impone al soggetto, nel suo ruolo di “marionetta” del fantasma.

Il presente fulmineo dell’apparire dell’opera d’arte agli occhi dell’osservatore si carica di tutte le reminiscenze del suo passato, delle sopravvivenze che la sua forma polarizza, e insieme tende a un futuro che lo preserverà come memoria. Parallelamente il fantasma fondamentale agisce come taglio sincronico in cui il presente si fa portatore delle istanze del passato, che ritorna con la potenza dell’attualità più bruciante, orientando allo stesso tempo il destino del soggetto (nella ripetizione indistruttibile dello Stesso o, grazie al processo analitico, nell’attraversamento del fantasma): un eterno presente – reminiscente e rivolto all’avvenire – una scena che si mostra in una forma condensata di presente, passato e futuro, una sintesi di tempo nel nodo dell’immagine, che le parole srotolano nel “filo” del discorso.

Queste due componenti della conoscenza e dell’esperienza umana, immagine e parola, non sono in contrasto tra loro, anzi si presentano insieme: il fantasma non è solo un’immagine, non costituisce una costruzione posizionata solo nel registro immaginario, ma agisce come “immagine messa in funzione nella struttura significante”, ossia articolata da parole e frasi. Sul versante storico-artistico Aby Warburg, nel saggio Arte del ritratto e borghesia fiorentina del 1902, parla di “ricostruire la naturale unità fra parola e immagine”.12 Proprio le riflessioni di Warburg sul concetto di Nachleben der Antike, traducibile come “sopravvivenza dell’Antico” e insieme “dopo-vita” o “vita postuma” dell’Antico, elaborate con l’obiettivo di scandagliare i tempi eterogenei che troviamo all’interno delle immagini e di rendere la complessità temporale di cui l’opera si fa portatrice, ci portano al centro della nostra riflessione sui rapporti tra tempo e opera d’arte.

Il fantasma fondamentale e il Nachleben warburghiano sono due strutture sicuramente diverse, elaborate da due intellettuali con interessi, metodi e obiettivi profondamente differenti, all’interno di contesti teorici, storici, politici lontani. Eppure, non possiamo evitare di interrogarci su alcuni parallelismi che, mutatis mutandis, sembrano emergere. Da un lato sia il pensiero di Warburg sia l’insegnamento di Lacan propongono modelli temporali complessi che scardinano la pacificante nozione di tempo lineare e che, probabilmente, sono alla base sia della temporalità dell’opera d’arte sia di quella del fantasma. Dall’altro il legame complesso tra parola e immagine che interessa l’approccio storico di Warburg risulta costitutivo pure della nozione stessa di fantasma come costruzione “simbolico-immaginaria” del soggetto.

Nella nostra ipotesi, quindi, l’ipertemporalità condensata della costruzione immaginaria fantasmatica si muove di pari passo con la sua risignificazione soggettiva après coup che ne rivela i tempi. Allo stesso modo, il tempo “denso” dell’opera d’arte risulta nello svolgimento del discorso storico-artistico, nell’esplosione dei significanti che ne riarticolano le componenti, oggetto dello studio storico-artistico. Le parole, infatti, dispiegano i tempi che l’opera d’arte sintetizza nella sua forma. Immagine e parola lavorano di concerto: i pensieri logico-discorsivi – nel senso di logos, pensiero espresso a parole – che l’osservatore elabora quando guarda un’opera d’arte si uniscono, quindi, a tutte le idee in immagini – nel senso di eidos, figura – che balenano nella sua mente e ne costituiscono il contraltare. La metafora del fulmine e del tuono che sempre lo accompagna, proposta da Walter Benjamin a proposito della conoscenza storica,13 può rendere l’idea di questa “immagine messa in funzione nella struttura significante”, di questa “naturale unità fra parola e immagine”: l’istante eterno, denso di tempi, dell’immagine è il fulmine che si mostra nell’attimo, cui segue il tempo esteso delle parole, del tuono che continua a far risuonare a lungo nel tempo il proprio rombo.

Lacan, infatti, non parla semplicemente di “immagine”, bensì di “immagine messa in funzione nella struttura significante”. La costruzione del fantasma, quindi, non si situa solamente nel registro dell’immaginario, come appare anche nella formula del fantasma proposta da Lacan in Kant con Sade, $ ◊ a:14 si tratta di un’immagine che permette di articolare il proprio desiderio e il proprio godimento, e insieme di recuperare un rapporto con il reale dell’oggetto piccolo a, un’immagine che, quindi, non sfugge assolutamente alla simbolizzazione e opera una torsione intorno al grande vuoto del reale. Prelevando le proprie componenti dal campo dell’Altro, il fantasma è frutto dell’alienazione significante, del taglio simbolico che il linguaggio impone al soggetto, ed è questo aspetto che il fantasma rivela quando “fissa” l’identità del soggetto ad alcuni significanti-padroni, cristallizzandolo nelle parole dell’Altro. Lacan afferma molto chiaramente che

il significante, producendosi nel luogo dell’Altro non ancora reperito, fa sorgere in esso il soggetto dell’essere che ancora non ha la parola, ma al prezzo di fissarlo […]. Che l’Altro sia per il soggetto il luogo della sua causa significante, non fa che motivare la ragione per cui nessun soggetto può essere causa di sé.15

In questo senso possiamo dire che il fantasma è una costruzione bifronte tesa tra l’immaginario e il simbolico, una scena per immagini che tende verso l’orizzonte simbolico del linguaggio. Viene così a fissarsi il desiderio del soggetto, consentendo di schermare il reale attraverso la relazione che instaura con l’oggetto piccolo a, come otturatore della mancanza dell’Altro. L’oggetto a, nella sua assenza costitutiva, opera una vera e propria messa in scena del fantasma, riportando l’azione del significante nell’orbita dell’immaginario. Allo stesso tempo, compie un processo di svuotamento del fantasma da contenuti positivi, tendendo alla purezza della significazione assoluta che trascende ogni particolarizzazione16 – il tratto idealmente “assoluto” che il fantasma presenta. Parallelamente a quanto avviene sul terreno del fantasma, il nostro rapporto con l’opera d’arte deve tenere conto di una serie di elementi temporali dove il già-stato e l’avvenire si incontrano nell’attimo presente, e insieme di considerazioni di ordine simbolico-immaginario, ossia della “naturale unità tra parola e immagine” di cui parla Warburg.

Aby Warburg e il Nachleben der Antike

La temporalità condensata che caratterizza il fantasma, lo scontrarsi dei tempi al suo interno, il carattere ipertemporale del suo statuto: tutti questi elementi sembrano risultare affini alla configurazione temporale complessa che caratterizza il modello del Nachleben proposto da Warburg.

Partendo da alcune riflessioni di Anton Springer, che si era concentrato sulla “permanente influenza dell’antichità durante il Medioevo (Das Nachleben der Antike im Mittelalter)”,17 Warburg non propone una polarità morte/vita dell’arte, intendendola alla base di una periodizzazione fatta di fasi di decadenza e di splendore, ma parla appunto di Nachleben, di “sopravvivenza”, di una “vita postuma” delle immagini che sono in grado di sopravvive alla loro stessa morte. Così facendo, indica una via d’accesso all’antico che non si basa sulla mera imitazione, ma presuppone una ripresa nel presente rinascimentale di motivi tratti dall’antico che ritrovano improvvisamente l’attualità più bruciante, una collisione dei tempi fatta di sopravvivenze, ritorni continui di formule espressive, di latenze che sembravano dimenticate fino a che non sono ricomparse con l’intensità di una presenza attuale e viva.

Questi aspetti si coagulano nella nozione di Nachleben, che per Warburg è Nachleben der Antike nella cultura rinascimentale, ma che rappresenta una caratteristica insita in ogni opera d’arte, dal capolavoro rinascimentale a tutte le opere delle arti “minori”: ogni immagine porta racchiusa in sé una densità temporale in cui il passato può tornare di colpo presente e insieme in cui il presente si configura come attualizzazione del già-stato, che si apre verso l’avvenire per il quale sarà memoria. Senza voler manipolare il pensiero di Warburg attraverso una lettura forzatamente e forzosamente “fantasmatica”, può di sicuro risultare fruttuoso intravedere quantomeno una consonanza con gli aspetti temporali che abbiamo riscontrato nel fantasma come struttura del soggetto, ipotizzando che questo avvenga proprio per il suo essere “un’immagine messa in funzione nella struttura significante”. E forse possiamo anche leggere un parallelismo tra il carattere ripetitivo del fantasma e i continui ritorni che le immagini presentano, le sopravvivenze, gli assilli con cui si manifestano indistruttibili nelle culture visive di epoche diverse.

Chiaramente, per Warburg la questione non può essere impostata come semplice problematica stilistica, come ripresa “scolastica” nel Quattrocento fiorentino di modelli antichi per raggiungere una piena padronanza di espedienti formali; e nel saggio Dürer e l’antichità italiana del 1905 Warburg mostra come, in realtà, i motivi antichi oggetto di interesse degli umanisti fossero davvero ritornati vivi e attuali nel Rinascimento. Questo testo, inoltre, rappresenta un punto di svolta anche perché qui giunge finalmente a definirsi con il proprio nome un altro termine cardine del pensiero warburghiano, la Pathosformel.

Partendo dall’analisi del disegno di Dürer intitolato La morte di Orfeo del 1494, conservato alla Kunsthalle di Amburgo, Warburg riconosce la derivazione diretta dell’opera da una stampa anonima proveniente dall’ambito di Mantegna a Mantova. Attraverso la mediazione di Mantegna, che aveva raffigurato la morte di Orfeo in uno dei pennacchi del soffitto della Camera degli Sposi di Palazzo Ducale a Mantova, la stampa mantovana a sua volta si rifà a un tipo sviluppato dall’arte greco-romana e presente in una serie di vasi e di sarcofagi antichi: la figura di Orfeo/Penteo con il braccio alzato nel tentativo di proteggersi dalle percosse delle menadi, raffigurate con gesti e movimenti concitati.

Il punto è che non si tratta di una semplice ripresa formale, di un interesse stilistico che si esaurisce nell’esercizio tecnico della stampa o del disegno, ma di formule di pathos vive, vigorosamente presenti nella loro attualità. Dürer si era, dunque, ritrovato in contatto con una formula di pathos “realmente animata da spirito genuinamente antico”,18 tanto che lo stesso tema della morte di Orfeo esce dai confini delle botteghe degli artisti e sembra permeare anche altri aspetti della cultura rinascimentale. L’Orfeo di Poliziano, rappresentato alla corte dei Gonzaga, dimostra come il primo Rinascimento non cercasse semplicemente nell’antico un tema d’occasione, ma fosse in grado di comprendere e rivivere lo spirito e il fondamentale tratto emotivo dei miti greci,19 riuscendo a intuire la derivazione dai misteri dionisiaci di un passato che improvvisamente ritorna presente. Warburg, infatti, afferma:

Qui risuona accanto all’immagine la voce genuinamente antica, familiare al Rinascimento: che la morte di Orfeo non fosse soltanto un tema di atelier d’interesse puramente formale, ma un’esperienza vissuta appassionatamente con piena intuizione del dramma misterioso della leggenda dionisiaca, rivissuta realmente nello spirito e secondo le parole dell’antichità pagana, è dimostrato dal primo dramma italiano del Poliziano, dal suo Orfeo concepito in ritmi ovidiani, rappresentato per la prima volta a Mantova nel 1471.20

La continuità tra le immagini di Dürer e della bottega di Mantegna e la rappresentazione teatrale in scena a Mantova dimostra come la sopravvivenza dell’antico fosse in grado di catalizzare l’interesse della cultura rinascimentale verso un tema, quello della morte di Orfeo, che dispiega tutta la sua influenza sia sul versante stilistico-formale, sia sul piano emotivo-psicologico. La questione di cui Warburg si occupa, dunque, non può porsi come problema, esclusivamente di ordine artistico o letterario, di trasmissione di modelli stilistici e formali dall’Antichità al Rinascimento, ma va indagata in una prospettiva più ampia: la sopravvivenza dell’Antichità e la sua rinascita nel Quattrocento italiano diventano il fulcro di un’indagine che interessa l’arte e le lettere, tanto quanto gli aspetti sociali e religiosi del Rinascimento.

In rapporto alla questione del Nachleben der Antike Warburg non pensa più a una storia dell’arte disgiunta dagli altri campi di studio delle scienze umane, ma a una vera e propria Kulturwissenshaft, una scienza della cultura, dove la cultura deve essere intesa come un tutto, in cui le arti visive espletano la propria funzione in strettissima relazione con gli altri elementi che la costituiscono. Se la cultura deve essere intesa come un tutto, anche l’immagine deve essere indagata come fenomeno antropologico globale,21 come condensazione di tutte le componenti di una cultura in un determinato momento. Nel suo saggio sulla nozione di Kulturwissenshaft in Warburg, Edgar Wind riflette acutamente su come per Warburg “[…] qualsiasi tentativo di separare l’immagine dal suo rapporto con la religione e la poesia, con il culto e il dramma, equivalesse a interromperne la linfa vitale”.22

Vediamo tutti questi aspetti intrecciarsi nell’analisi della morte di Orfeo per come questo tema viene recepito dalla corte mantovana alla fine del Quattrocento: danza, letteratura e arte dispiegano, ciascuna nel proprio ambito, la sopravvivenza e la rinascita del mito. E contemporaneamente, nella nostra lettura, la “potenza creatrice di stile” delle formule di pathos, individuata da Warburg sin dalla premessa del suo primo testo pubblicato,23 risolve la grande antinomia alla base della cultura rinascimentale, ossia che nelle urne e nei sarcofagi antichi si potessero ritrovare i gesti vivi, gli atteggiamenti, i moti fisici intensificati, in grado nella loro sopravvivenza di rendere pienamente i moti dell’animo e di imprimersi in modo indelebile nella memoria della comunità degli uomini. In altre parole, le Pathosformeln si oppongono allo scorrere del tempo, mandano in frantumi l’idea stessa di successione cronologica, operando quel taglio sincronico che trasforma ogni tempo in un presente eternamente attuale, in cui le passioni e i sentimenti dell’antichità riprendono vita e divengono passioni e sentimenti di oggi, incarnati nelle stesse forme di gestualità, intensificata fino all’incandescenza, che erano, sono e saranno per sempre.

Da una parte, il fantasma sospende il soggetto nell’attimo eterno di un presente reminiscente e aperto al futuro, fissando la metonimia del desiderio e bloccando il soggetto-marionetta in un presente senza fine in cui il già-stato e il poter-essere si scontrano nel presente della ripetizione ineluttabile dello Stesso. Assistiamo, cioè, alla convergenza tra il già-stato, il passato nel suo ritornare di colpo attuale, e il poter-essere, l’avvenire che si configura come poter essere solo ciò che già era, nel presente dello Stesso, in cui si manifesta la condizione di fissità del fantasma. Dall’altra, osserviamo lo stesso scontro di differenti piani temporali anche nell’opera d’arte, che ci posiziona “di fronte al tempo” ogni volta che la guardiamo: anche nell’opera d’arte assistiamo a un urto dei tempi, bloccati, fissati nella sua forma; assistiamo a uno scontro vero e proprio del già-stato e del poter-essere nell’attimo presente della visione: nella sua dimensione ipertemporale, densa di tempo, l’opera d’arte permette a tutte le latenze del passato, alle sopravvivenze, di tornare nuovamente attuale e, allo stesso tempo, si apre verso l’avvenire che la conserverà in quanto memoria.

In questo senso possiamo leggere quello che Warburg chiama “il potere mitopoietico dell’immagine”,24 potere che chiaramente la morte di Orfeo dispiega in tutto il suo vigore: la sopravvivenza dell’antico permette al mito di Orfeo di riprendere vita nel Rinascimento, di attualizzarsi nel disegno di Dürer in cui il passato di Orfeo torna potentemente attuale, in cui i misteri dionisiaci seguiti dalle menadi nei loro riti dimostrano non solo di non essere stati dimenticati, ma di poter ritornare all’improvviso con la vitalità più bruciante all’interno di un’opera d’arte rinascimentale.

Nel 1924 Warburg arriva a dire a proposito di questo tema: “il mito di Orfeo racchiude, con le sue speranze e il suo annientamento, l’intero ciclo dei sentimenti umani impotenti rispetto al destino”.25 Siamo, quindi, di fronte a un modello culturale complesso ed eterogeneo, che rimanda a una modello temporale altrettanto complesso ed eterogeneo: le immagini della morte di Orfeo presentano una vera e propria collisione di tempi, una tensione tra la memoria del mito – mito antico che esprime la propria vita postuma (Nachleben) nel presente attuale dell’immagine – e il suo aprirsi verso il futuro, quasi presentasse un carattere di presagio, il “destino” che nella favola di Orfeo racchiude il monito della sventura a venire.

Percepiamo davvero il potere mitopoietico dell’immagine, perché il mito fa l’immagine tanto quanto l’immagine fa il mito: se il disegno di Dürer e la stampa mantovana, infatti, necessitano della preesistenza del mito per poter essere create, allo stesso modo il disegno e la stampa, lungi dall’essere soltanto un esercizio di atelier, incarnano nella propria forma il mito, lo (ri)creano nell’hic et nunc dell’incontro con lo sguardo che li osserva. In tal modo riportano nel presente della visione l’antica vicenda di Orfeo, una vicenda fatta di “sentimenti umani” senza tempo, e contemporaneamente la proiettano verso l’avvenire dei sentimenti che saranno e della loro futura memoria in chi le avrà guardate. Qui risiede il carattere retrospettivo e insieme profetico che il Nachleben warburghiano conferisce alle immagini,26 lontanissimo da qualsivoglia idea di linearità del tempo e vicino alla problematica della temporalità densa e ripiegata su se stessa del fantasma nell’insegnamento di Lacan. Anche Lacan, infatti, propone una revisione del concetto di tempo come successione continua: da una parte il fantasma fondamentale porta passato, presente e futuro a coincidere tra loro nella ripetizione dello Stesso, dall’altra il modello après coup dell’analisi indica una via per sciogliere l’intreccio dei tempi che costituiscono la linea di destino del soggetto.

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  1. Freud (1919, p. 43).

  2. Lacan (1974b, p. 633, corsivo nostro).

  3. Recalcati (2016, p. 273).

  4. De Luca Picione (2017).

  5. Cfr. Lacan (2013, pp. 320-321).

  6. Freud (1899, p. 565).

  7. Id. (1907, p. 379).

  8. Lacan (1974b, p. 592).

  9. Id. (1974a, p. 293).

  10. Id. (2003, p. 269, corsivo nostro).

  11. Didi-Huberman (2007, p. 16).

  12. Warburg (1966, p. 114).

  13. Benjamin (1940, p. 510). Sui rapporti di Benjamin con l’opera di Warburg e dei suoi allievi, si vedano Rampley (2000); Pisani (2004); Didi-Huberman (2007, pp. 87-95); Bertozzi (2010); Rampley (2012).

  14. Lacan (1974c, p. 774). La formula del fantasma $ ◊ a esprime la funzione di legame tra il soggetto e l’oggetto piccolo a, attraverso il desiderio. $ indica il soggetto barrato, ossia strutturalmente diviso dall’azione del linguaggio, che lo precede; l’oggetto piccolo a rappresenta, invece, la parte del soggetto che resiste alla significantizzazione, e resta come eccedenza, come oggetto perduto causa del desiderio.

  15. Id. (1974d, p. 844).

  16. Boothby (2001, p. 290).

  17. Gombrich (1983, p. 51).

  18. Warburg (1966, p. 195).

  19. Cfr. Gombrich (1983, pp. 158-160).

  20. Warburg (1966, p. 196).

  21. Didi-Huberman (2006, p. 48).

  22. Wind (1992, p. 43).

  23. Warburg (1966, p. 3).

  24. Cit. in Gombrich (1983, p. 136).

  25. Warburg (2008, p. 220).

  26. Nagel Wood (2010, p. 357).