Premessa
Nella maggior parte dei testi che trattano la storia della fotografia dell’Ottocento la figura di Lady Clementina, viscontessa Hawarden, è poco commentata e approfondita, se non addirittura ignorata. Tuttavia, alcune foto di Lady Hawarden furono premiate dalla Photographic Society of London mentre la fotografa era ancora in vita. Possiamo dedurre quindi che la viscontessa non godette di una buona fortuna critica, forse a causa della sua morte precoce, evento che la fece presto dimenticare dai suoi contemporanei. Gli scatti della fotografa furono riscoperti solo più tardi, nel 1939, quando la nipote dell’artista donò più di settecento fotografie al Victoria and Albert Museum di Londra.1
La maestria con cui la Hawarden compose i suoi scatti può essere assaporata fin dal primo sguardo. Realizzate nel suo salotto-cum-studio, le fotografie proponevano infatti, secondo l’Illustraded London News, “un’ottima combinazione di conoscenza artistica ed emotività per quanto riguarda la composizione, le pose e la gestione del focus, della luce e dell’ombra”.2 Bisogna sottolineare che i contemporanei vittoriani di Lady Clementina si soffermarono esclusivamente sulla pregevolezza tecnica dei suoi scatti tralasciando completamente – e forse volutamente – tematiche come quella dell’erotismo, del rapporto madre-figlia, del voyeurismo, della condizione della donna vittoriana, dell’uso degli specchi, della mise en abyme e del doppio innegabilmente presenti nella sua opera. Attraverso questo breve scritto abbiamo cercato di recuperare e risignificare – seguendo la scia dei recenti studi condotti da Carol Mavor e da Federica Muzzarelli – alcuni di questi elementi, che permeano in maniera continua e significativa il lavoro di Lady Hawarden.
Una sperimentatrice libera sullo sfondo del pittorialismo
Nel suo saggio Nel segno delle artiste, donne, professioni d’arte e modernità, la sociologa Maria Antonietta Trasforini afferma che,
se la prima fotografa fu l’inglese Constance Talbot, moglie di William Henry Talbot, il gentiluomo inglese che inventò il processo negativo-positivo nel 1835, […] numerose furono le appassionate della prima ora, appartenenti all’upper class inglese, con l’esponente più illustre nella Regina Vittoria, che si fece installare una camera oscura al Castello di Windsor.3
Molte furono quindi le fotografe dilettanti che ebbero la possibilità di esprimersi, seppur lontane dal circuito mainstream delle arti e dei suoi dibattiti. Queste pioniere della fotografia, operando da una posizione di marginalità e dilettantismo, si ritrovarono a cercare e a creare degli spazi autonomi e intimi dove sperimentarsi, andando spesso ad innescare comportamenti e azioni che potrebbero definirsi proto-performativi. Ed è proprio tra queste prime fotografe che può inserirsi l’avventura di Lady Clementina Hawarden, la cui personalità, come sottolinea Federica Muzzarelli, “è molto diversa da quella degli artisti fotografi formati alle arti tradizionali”.4 Benché probabilmente influenzata dalle tendenze pittoriche della sua epoca o dallo stile fotografico dei pittorialisti, Clementina propone un lavoro che se ne distingue. Come spiega André Ghuntert, “il suo universo è più intimista, ma anche più speculativo e in questo differisce dai ‘pezzi’ presentati alle esposizioni. […] Nell’opera della Hawarden, le convenzioni vengono affrontate con un approccio veramente libero”.5 Secondo la studiosa Virginia Dodier, proprio a causa di questa libertà, l’opera fotografica della Hawarden non può configurarsi solo come un mezzo per raccontare la vita della sua famiglia, per documentarla e darle un orientamento.6 Sembra esserci una sorta di ambiguità di fondo all’origine della sua pratica fotografica: le immagini infatti sembrano testimoniare e raccontare la sua vita famigliare, lasciando intravedere allo stesso tempo un legittimo spazio di illecita sperimentazione. Ed è forse proprio attraverso questa modalità ambivalente e questo tipo di dialettica che la Hawarden sembrerebbe suggerire molto di più di quello che narra.7
Voyeurismi ottocenteschi: gli scatti “innocenti” della fotografia vittoriana
Potremmo quindi affermare che “all’interno di questa struttura apparentemente aristocratica e convenzionale”8 Lady Clementina riuscì a sviluppare, attraverso le sue fotografie, delle particolarissime atmosfere. A riprova di ciò c’è il fatto che il suo lavoro conquistò la fervente stima di un altro fotografo dilettante suo contemporaneo: Charles Lutwidge Dogson, meglio conosciuto come Lewis Carroll.9 Ma come mai le foto di Clementina piacevano così tanto a Lewis Carroll? A questa domanda risponde Graham Ovenden:
Dogson e Lady Hawarden condividevano molte qualità come fotografi. Entrambi erano essenzialmente dilettanti con una raffinata sensibilità per una più intima vita domestica. Una similarità ancora più marcata sta nella introversa sessualità che permea la maggior parte del loro lavoro fotografico.10
Questa raffinata sensibilità e l’introversa sessualità che aleggiava nei lavori di entrambi univa i due nell’effettuare arditi “voyeurismi ottocenteschi trasgressivi e piccanti, sublimati e concretizzati tramite la fotografia”.11 Fu forse questa la caratteristica che mosse l’attrazione di Carroll nei confronti di Lady Hawarden, la quale, dal 1859 fino al 1865 – data della sua morte precoce causata da una polmonite – “scatta tra le pareti claustrofobiche del suo studio londinese di Kensington Square circa 800 immagini che ritraggono un solo, testardo, ossessivo soggetto: il corpo delle graziose e innocenti figlie”,12 Clementina Maude e Isabella Grace. Come ci racconta Federica Muzzarelli, “davanti agli specchi e alle finestre di casa le figlie di Clementina, […] si lasciano gradualmente andare cominciando, sotto lo sguardo meccanico ma ‘invadente’ della madre-voyeur, ad abbracciarsi, ad accarezzarsi, a guardarsi languidamente”.13 (Fig. 1)
Dal 1863 al 1864 Lady Hawarden aggiunge al suo lavoro, oltre alle allusioni sessuali costruite tramite specchi e sguardi, “l’ingrediente della fantasia scenica grazie all’allestimento di tableaux-vivants in cui le figlie impersonano una serie di maddalene, di madonne e di regine”.14 Ma in che misura le fotografie di Lady Hawarden riproducono semplicemente questo divertissement o invece ritraggono le figlie che improvvisano, proprio a partire da quella situazione, delle nuove scene di realtà-finzione?15 Secondo Federica Muzzarelli, anche in questa nuova tipologia di fotografie le figlie di Clementina diverrebbero in qualche misura complici (consapevoli?) delle evasioni erotico-fantastiche della madre, “collaborando con lei a inscenare un’incredibile dimensione esotica entro i confini austeri dell’Inghilterra vittoriana”.16 Se “la macchina fotografica è una sorta di passaporto che cancella i limiti morali e le inibizioni sociali, liberando il fotografo da qualsiasi responsabilità verso le persone fotografate”,17 è possibile che anche Carroll e Lady Hawarden l’abbiano usata come unico mezzo lecito a loro disposizione per “scrutare, toccare”18 e vivere in differita il contatto con i corpi adolescenti che posavano davanti all’obiettivo. Si potrebbe ipotizzare quindi, che l’elemento principale che legava i due artisti riguardasse il soddisfacimento pulsionale19 collegato all’attività sublimatoria. D’altra parte, secondo Recalcati e in termini lacaniani, “il fondamento dell’azione sublimatoria implica […] l’incontro con il reale della Cosa”20 senza esserne risucchiati. In merito alla poetica utilizzata da Lady Hawarden per il trattamento del reale della Cosa è Federica Muzzarelli a suggerire un affascinante parallelismo tra Lady Hawarden e il pittore bolognese Giorgio Morandi. Afferma infatti che l’invariabilità dei soggetti della fotografa “appare quasi paragonabile a quella che ha reso famosa la pittura di Giorgio Morandi”.21 Sulla scia di questa affermazione si potrebbe pensare che anche Clementina creasse le sue speciali “nature morte” insistendo nel predisporre sempre gli stessi oggetti nelle sue foto,22 tra cui le sue stesse figlie trattate alla stregua di bambole.23 È Carol Mavor a raccontarci quali siano gli oggetti che compaiono, ossessivamente ripetuti, negli scatti della fotografa:
L’opera della Hawarden si concentra quasi interamente sulle sue adorabili figlie adolescenti (Isabella Grace, Clementina Maude, Florence Elizabeth), la sua collezione di graziosi oggetti (un armadietto da viaggio indiano, uno specchio cheval, una scrivania in stile gotico, una piccola sedia di legno con sedile imbottito a fantasia floreale, una scatola rivestita di conchiglie, un calice d’argento, un tamburello, una concertina, un vaso dalle forme tondeggianti) insieme ad armadi pieni di abiti particolari (i pantaloni da equitazione e le calze, gli elaborati abiti e i copricapo di Mary, Regina di Scozia, il pizzo nero di una danzatrice spagnola, la gonna e la scopa di Cenerentola, un completo da equitazione, l’abito orientaleggiante di una concubina).24
Inoltre Clementina ambientava le sue fotografie esclusivamente in due spazi specifici: “uno che guardava verso i giardini privati e che si apriva sulla terrazza, e l’altro costituito dalla stanza della pittura, con un camino e alte finestre a vetri che davano sul balcone”.25 C’era poi un altro elemento molto caratteristico, anche se non inusuale nelle case vittoriane: la carta da parati che, nel caso dell’abitazione della fotografa, era costituita da “un grande cielo grigio trapuntato di eleganti stelle dorate”.26
La donna-casa
Le virtù domestiche erano uno dei cardini della civiltà inglese dell’Ottocento. Hannah More, una delle maggiori esponenti dell’evangelicalismo, movimento di riforma nato nella chiesa anglicana, era fortemente convinta che gli uomini e le donne fossero destinati per natura a occupare sfere diverse.27 Il pregio della donna era principalmente legato ai suoi doveri di madre e moglie.28 Per una donna vittoriana, quindi, la casa diventava il campo principale “della sua influenza e della sua azione; i più vasti teatri della vita pubblica non erano per lei”.29 Come molte donne della sua epoca, anche una donna aristocratica come Lady Hawarden trascorreva probabilmente lunghe giornate di vita domestica. Questo doveva valere anche per le sue figlie e lo si può intuire dalla foto che ritrae Clementina Maude con le braccia che sembrano aggrapparsi ad una tenda (Fig. 2). Queste le parole di Carol Mavor per descriverla:
I capelli graziosamente raccolti, gli occhi misericordiosamente chiusi in onore della calda luce che illumina non solo il suo volto ma anche le sue braccia, il suo petto, la sua gonna appariscente che si gonfia di tutta la drammaticità e l’ilarità di una brioche appena sfornata, la ragazza sembra rinchiusa in un nido, non di sensuale e omoerotico piacere, ma piuttosto di inesorabile vita domestica.30
La cosa che colpisce di più in questa fotografia sono proprio le mani di Clementina Maude, che appaiono spasmodicamente intrecciate l’una all’altra nell’accostarsi alla tenda della finestra. Il vestito sembra fondersi con il tessuto della tenda, generando l’illusione che si tratti di un unico corpo. Inoltre la ragazza sembrerebbe volersi dirigere verso la cornice della foto per poterla squarciare e poi fuoriuscirne. Clementina Maude, aggrappata al tessuto che rispecchia il vestito che indossa, sembra riproporre attraverso i suoi ampi movimenti, il disperato gesto di strappare la carta da parati gialla – centrale nel famoso racconto scritto da Charlotte Perkins Gilman sul proprio crollo nervoso.31 La storia, intitolata appunto La carta da parati gialla, costituisce la sua opera più nota, resa pubblica nel 1892.32 Attraverso suggestioni autobiografiche, la scrittrice non solo “mette in luce le costrizioni elegantemente mascherate che opprimevano le donne in età vittoriana”33 ma, tramite il suo personaggio, si ribella ad esse. La protagonista del racconto infatti, confinata in camera da letto dal suo marito – che è anche il suo medico – avvia di nascosto un processo di autocura attraverso la scrittura di un diario.34 Pagina dopo pagina ella ci narra la sua crescente ossessione nei confronti della carta da parati che ricopre le pareti che la circondano. Quasi ipnotizzata da quella tappezzeria che ha sempre sotto gli occhi e diventa lo sfogo di tutte le sue frustrazioni, inizierà a intravedere, attraverso le righe del disegno, un profilo di donna “murata all’interno della trama”35 che cerca di fuggire da quella prigionia “che è proiezione della sua stessa anima, come verrà palesato a fine racconto quando le due donne si sovrapporranno e si identificheranno definitivamente”.36
Lady Hawarden sembra aver tradotto questa condizione della donna vittoriana attraverso le sue fotografie. Tramite un movimento di identificazione con la figlia, la fotografa avrebbe immortalato il suo doppio che diviene casa. Così come la fotografia proposta, molti altri scatti sembrerebbero suggerire che le vite di Lady Hawarden e delle figlie siano state, come scriveva Emily Dickinson parlando della sua stessa vita, “limate e adattate ad una cornice”.37 Effettivamente, tutti i tipi di cornice presenti negli scatti di Lady Hawarden, sia che si tratti delle mura della casa o dei bordi delle foto, o ancora, degli stipiti delle porte e delle finestre, sembrano stringersi intorno alle ragazze come i loro abiti aderenti.38 Ad esempio, in una foto che ritrae Isabella Grace (Fig. 3), questa indossa un vestito puntinato che si uniforma, attraverso i pois, alla parete stellata della carta da parati.39 Isabella viene così immortalata dalla madre mentre si fonde con gli elementi della propria casa.40
Il simultaneo affermare e negare se stessi in distinzione e in relazione all’ambiente caratterizza anche il lavoro di un’artista contemporanea che spesso viene associata a Lady Clementina Hawarden.41 Si tratta della ormai leggendaria fotografa Francesca Woodman, che esplorò il tema della propria identità attraverso l’utilizzo di spazi domestici. Isabella Pedicini afferma che la Woodman dovette conoscere sicuramente l’opera fotografica della Hawarden.42 Le due fotografe esemplificherebbero, secondo la studiosa, “una metafora ricorrente nella fotografia femminile, quella degli autoritratti messi in scena che, anche quando non prendono a modello il proprio Sé possono comunque essere considerati autoritratti”.43 Se le foto di Lady Hawarden a prima vista potrebbero apparire ingenuamente rassicuranti, l’arte della Woodman risulta palesemente più inquieta e inquietante. Tormentata da un senso di minaccia, la sua bellezza lapidaria e la sua eleganza funzionano come una specie di esca. Ciò è particolarmente evidente nella serie di opere in cui l’artista inscena tableaux che rappresentano trappole, sprofondamenti o assorbimenti della donna in quegli spazi – entrambi sia reali che metaforici – in cui lei è convenzionalmente relegata.44
Questa malinconica tensione è particolarmente evidente nelle serie House e Space2, risalenti al 1975-76, i cui scatti ritraggono il confine instabile e permeabile tra il suo corpo frammentato e un derelitto interno domestico.45 Francesca Woodman sembra aggirarsi per quelle stanze in una modalità che trasmette “un’inquietante confusione di confini fisici e psicologici, il timore che il suo ego possa rimanere assorbito all’interno di quell’ambiente infausto e abbandonato”.46 Come l’eroina del racconto della Gilman, che a causa dell’isolamento e della repressione vittoriana e borghese cade nella follia, così circa cento anni dopo anche la Woodman sembra correre il rischio di sparire in un mondo spaventoso, inghiottita dalla casa che dovrebbe essere il suo rifugio.47
Le donne-casa prendono forma anche nell’opera di un’altra artista molto nota, Louise Bourgeois.48 Le sue figure femminili appaiono raffigurate con dei corpi umani ma al posto della testa spesso compare una casa. Come spiega Carla Subrizi,
cosa più della casa, la casa che tutti continuano a pensare (proprio quella dell’infanzia) in ogni età, la cui memoria non cessa di turbare e incutere gli stessi timori, la casa dove si hanno le prime esperienze dell’affetto ma anche delle dinamiche che violano, offendono e contraddicono quegli affetti, fino a trasformarli in ossessive paure, debolezze, dolore, può costituire l’immagine efficace di uno spazio da capire, indagare, interrogare? Il corpo è Femme e la casa è lo spazio che argina e chiude, talvolta con gravi danni, la possibilità di relazione: per costruire soggettività (non per definirla) c’è bisogno di andare al di là, di aprirsi all’esterno, di oltrepassare il limite. […] L’arte allora “è garanzia di salute mentale” dice la Bourgeois. Non compensa ma produce il lavoro necessario per ricordare, trasformare e consegnare a altri che vogliono ascoltare, condividere, cercare.49
Alcune fotografie della Hawarden sembrano dare corpo proprio a un’apertura verso l’esterno, a un tentativo di fuga che, sebbene non reale, può almeno avvenire attraverso la fantasia. Questo movimento ricorda “i momenti di fuga” dickinsoniani descritti nella poesia The Soul has Bandaged Moments, “L’anima ha momenti di fuga” – recitano i celebri versi della poetessa – “quando sfonda ogni porta e danza come una bomba, là fuori”.50 L’angosciante stereografica che ritrae Clementina Maude e Isabella Grace posizionate davanti alla vetrata spalancata che dà sulla terrazza sembra rappresentare, come in un sogno o in una fantasia, l’istante successivo alla fuga di Lady Hawarden avvenuta attraverso la finestra (Fig. 4). Come afferma Sigmund Freud nel saggio Il poeta e la fantasia riguardo alle motivazioni dell’attività fantastica:
Si deve intanto dire che l’uomo felice non fantastica mai; solo l’insoddisfatto lo fa. Sono desideri insoddisfatti le forze motrici delle fantasie, e ogni singola fantasia è un appagamento di un desiderio, una correzione della realtà che ci lascia insoddisfatti.51
La distanza che lo sguardo della Hawarden mette tra sé e le figlie sembra far presagire una triste fantasia di abbandono. Le tende di mussola, che solitamente velano le finestre negli scatti della Hawarden attenuando la luce degli ambienti, questa volta sono state rimosse facendo entrare nella stanza un fortissimo biancore. La lontananza e il distacco di quello sguardo materno, unito al nitore che sembra dissolvere le teste delle due ragazze, creano un’immagine pervasa da un profondo senso di solitudine.52 Nonostante “ai lati di entrambe le ragazze ci siano le immagini dei vetri, come compagni spettrali”,53 non c’è traccia della loro madre. Sembra esserci solo un movimento di aria bianca e sulla destra appare uno strano oggetto in primo piano che sembra indicare le ragazze, come se si trattasse di una mano. Si tratta di un poggia-testa, assai utilizzato dai fotografi dell’Ottocento per far stare un po’ più comodi i modelli. Roland Barthes, che descrive questo oggetto nel suo saggio La camera chiara, lo definisce come “una sorta di protesi”.54 Questa protesi “reggeva e manteneva il corpo nel suo passaggio verso l’immobilità: questo appoggia-testa era lo zoccolo della statua che io stavo per diventare, il busto della mia essenza immaginaria”.55 Così Lady Hawarden, sembrerebbe aver lasciato in casa il suo busto-crisalide, il suo asfissiante corsetto vittoriano, come congelato nel gesto finale da lei effettuato: quello di una madre che tenta di accarezzare per l’ultima volta le sue ragazze, prima della sua fuga verso la libertà.
Non possiamo sapere se le foto di Lady Clementina fossero, come l’opera La carta da parati gialla, consciamente e direttamente critiche verso l’opprimente sistema che legava la donna borghese vittoriana alla sua casa. Ma è lecito ipotizzare che l’uso della fotografia facesse provare sollievo alla fotografa, e forse anche alle sue figlie, costrette alla condizione di reclusione tipica di quell’epoca. Così come la scrittrice Charlotte Perkins Gilman utilizzò le pagine del diario vergate dalla protagonista del suo racconto per uscire da uno stato di sofferenza, è verosimile pensare che anche Lady Hawarden abbia esplorato possibilità negate attraverso i soggetti delle sue fotografie. Infatti, come può accadere per il processo della scrittura – il quale amplifica il suo potenziale riparativo quando si passa dalla modalità privata di cui un esempio è il diario, “a un progetto più autenticamente letterario come l’autobiografia o il romanzo vero e proprio”56 – l’opera di Lady Hawarden potrebbe essere vista come una speciale autobiografia o come un fantasioso romanzo scritto con il corpo delle proprie figlie per mezzo della macchina fotografica.
Gli specchi heimlich di casa Hawarden
L’invenzione della fotografia è intimamente collegata alla sua relazione con lo specchio, come se tra di loro esistesse “un intimo rapporto di filiazione”.57 Questo connubio è presente fin dalle origini dell’invenzione fotografica, cioè fin da quando Joseph Nicéphore Niépce, nel 1829, riuscì a stabilizzare la sua prima immagine disegnata dalla luce su uno strato di bitume di Giudea. La sua intenzione era infatti quella di riuscire a “fissare l’immagine dello specchio”.58 Le foto di Lady Hawarden mostrano in maniera insistente e continua il rapporto tra fotografia e specchio – oggetto pressoché onnipresente negli studi fotografici dell’Ottocento e topos molto visitato dalla ritrattistica pittorica. Quello che appare frequentemente nei suoi scatti è del tipo “verticale a tutta altezza e orientabile, chiamato Psiche o Cheval glass”.59 Apparve a inizio secolo e si diffuse soprattutto negli ultimi decenni dell’Ottocento, quando le donne cominciarono “a curare di più l’aspetto e la vanità ma anche a porsi necessità di tipo identitario e corporeo”.60 C’è da dire che il modo in cui Clementina chiese “ostinatamente alle figlie di moltiplicare i loro corpi e i loro volti dentro alle rifrazioni speculari”61 potrebbe voler comunicare “una volontà ben più profonda di un’occasione e di un vezzo da ritratto da atelier”.62 Vista l’invadenza debordante dell’utilizzo di specchi nelle sue fotografie, si potrebbe credere che per Lady Hawarden fosse di primaria importanza vivere “il sottile gioco di rimandi psicologici e di interscambi che si potevano creare tra la propria immagine e quella delle figlie o, ancor meglio, tra la sua identità e quella delle figlie”.63 In effetti, come è noto, lo specchio è anche ciò che consente la formazione del nostro io.64 Secondo Donald W. Winnicott, “prima del famoso stade du miroir descritto da Lacan”,65 in cui “il corpo in frammenti”66 del bambino “viene ricomposto in un’unità formale, proiettandosi e identificandosi nella Gestalt della propria immagine allo specchio”,67 – il volto della madre concorrerebbe alla formazione dello sviluppo emozionale del bambino.68 Questa immagine quindi fungerebbe da vero e proprio “precursore dello specchio”.69 Come illustra Stefano Ferrari nel suo saggio Lo specchio dell’Io,
il lattante […] guardando il volto della madre vede se stesso, vede riflesso il suo Sé, a cominciare dal suo stato d’animo. Quindi la madre deve essere in grado di rispondere adeguatamente allo sguardo del figlio, nel senso che deve restituirgli ciò che egli le dà.70
Da questa dinamica deriverebbe il tipo di rapporto che da adulti si instaura sia con lo specchio che con il proprio aspetto. Se il rapporto primario con il volto della madre è stato appagante, da adulti non si avranno difficoltà a relazionarsi con gli specchi, con il proprio volto e con la propria immagine.71 Se invece il volto della madre non è stato responsivo, la ricerca della propria immagine potrebbe continuare, ad esempio, attraverso la pratica dell’autoritratto.72 Si potrebbe ipotizzare per Lady Hawarden una ricerca di questo tipo. Infatti, come suggerisce Federica Muzzarelli, “la scelta ossessiva ed esclusiva dell’immagine delle figlie come oggetto del suo sguardo indagatore è significativa: niente come una figlia (se poi si chiama anche Clementina)”73 avrebbe potuto aiutarla di più a svolgere la sua analisi identitaria. In effetti moltissime fotografie delle figlie di Lady Hawarden potrebbero essere viste come degli autoritratti della fotografa stessa, effettuati attraverso un meccanismo di “identificazione proiettiva”.74 I corpi delle figlie e i loro travestimenti le servirebbero per compiere un’esplorazione di se stessa. Lady Hawarden non ci ha lasciato neppure un’immagine di sé e questo potrebbe far supporre che ella non avesse avuto un buon rapporto con lo specchio. Attraverso i corpi e i volti delle figlie invece, la fotografa poteva non solo evitare la violenza del mezzo fotografico, ma anche rimirarsi attraverso uno specchio rassicurante, in una parola heimlich.
Gli specchi unheimlich di casa Hawarden
L’utilizzo degli specchi nelle foto di Lady Hawarden potrebbe allo stesso tempo innescare nel fruitore il sentimento estetico del perturbante. Molte foto sono costruite, ad esempio, attraverso la tecnica della mise en abyme, capace di dar vita ad uno spazio altamente onirico. L’osservatore infatti potrebbe restare prigioniero dell’abisso, intrappolato in una stanza di specchi, dove il campo della rappresentazione non fa altro che rimandare a se stesso senza sosta.75 Come spiega Rosalind Krauss, tramite la mise en abyme “ogni elemento fornisce il senso dell’altro, ciascuno inghiotte l’altro nel proprio campo di rappresentazione”.76 Antonella Russo, descrivendo l’effetto perturbante causato dall’introduzione degli specchi nelle fotografie della Hawarden, tratteggia una situazione molto simile a quella esposta sopra dalla Krauss. La Russo infatti afferma che la Hawarden
predilige come soggetto sua figlia Clementina Maude, ritratta quasi sempre in posa di fronte a uno specchio, nei pressi di grandi finestre. In queste immagini Lady Hawarden inscrive il corpo della figlia al centro di un circuito di sguardi che dall’osservatore va alla ragazza, alla sua figura specchiata e proiettata oltre la finestra. Questo vortice di sguardi avvolge il soggetto, lo isola e, simile ad una ragnatela che trattiene le immobili rappresentazioni femminili sospese come insetti cristallizzati in una sorta di isolamento nevrotico nel loro narcisismo, lo imprigiona (Fig. 5).77
In effetti, come osserva Federica Muzzarelli, “la fotografia di uno specchio è una specie di sfida tautologica e insieme un invito ad una folle corsa nei meandri abissali dell’immagine narcisistica”.78 Le immagini proposte dalla Hawarden, quindi, potrebbero essere considerate come una concreta variante al femminile del mito di Narciso. Le figlie di Lady Clementina infatti appaiono immortalate in “una vera e propria scena primaria per quanto riguarda il tema del doppio”.79 Questa situazione viene riproposta con una frequenza incredibile negli scatti della fotografa, al punto da andare a costituire “un motivo fondamentale della sua poetica”.80 In conclusione, la ricerca della Hawarden, effettuata attraverso la complice ambiguità degli specchi, oscillava fra la “definizione di identità e la parallela fuga negli abissi del riflesso e della moltiplicazione”.81
Tra i diversi scatti della Hawarden che richiamano in maniera accentuata la presenza di specchi ce n’è uno in particolare che, pur non mostrando esplicitamente uno specchio, “appare come una vera e propria affermazione di poetica”.82 Nella foto compaiono Isabella Grace e Clementina Maude che, abbracciandosi in maniera fusionale, sembrano quasi possedere un unico corpo. Clementina Maude spinge sua sorella verso il bordo sinistro della fotografia mentre la parte destra dell’immagine resta quasi vuota. Ma mentre Clementina Maude appare di profilo e totalmente attratta dalla sorella, Isabella Grace, con lo sguardo abbassato, porge verso l’obiettivo della madre una fotografia scattata da quest’ultima (Fig. 6). Si tratterebbe anche in questo caso di una mise en abyme, una fotografia dentro una fotografia equivale infatti ad uno specchio che riflette un altro specchio o ad uno specchio inserito dentro ad una fotografia. In questa immagine i corpi delle figlie sembrerebbero “clonarsi all’infinito”.83 In un’altra foto invece, vediamo Clementina Maude che con un appariscente cappello guarda se stessa, il suo doppio riflesso nello specchio (Fig. 7).
Ma mentre la “vera” Clementina Maude appare collocata compostamente da un lato della fotografia, la Clementina Maude “riflessa” sembra invece osservarla vivendo di vita propria. Questa fotografia sembra abbandonarci, per dirla con le parole di Sigmund Freud, “alla superstizione che ritenevamo in noi superata”.84 Essa infatti sembra proporci il motivo del doppio come appare in molta letteratura fantastica: l’immagine riflessa, essendo capace di diventare altro da noi, può persino arrivare a privarci della nostra stessa anima.85
Conclusioni
Attraverso la realizzazione di immagini appositamente ermetiche e grazie alla scelta di non utilizzare titoli per le sue fotografie, gli scatti della Hawarden potrebbero configurarsi come un’opera aperta. Questo ha contribuito a generare nel tempo sia delle letture che sottolineavano il ruolo protettivo e amorevole della fotografa nei confronti delle proprie figlie, sia che delle interpretazioni che hanno invece fortemente messo in discussione il ruolo di buona madre “vittoriana” della Hawarden. Questa ambivalenza interpretativa riguardo al ruolo agito dalla fotografa durante le sue sedute con le figlie sembra ricondurci all’immagine della figura della madre teorizzata nella psicoanalisi kleiniana.86 Come ci ricorda questa teoria, la figura della madre come quella dello specchio è bifronte: la madre può essere buona e cattiva insieme, “familiare ed estranea, rassicurante e persecutoria”.87 Nelle foto scattate dalla Hawarden le sue figlie infatti appaiono spesso “come sottoposte a una sorveglianza continua”.88 La Hawarden quindi sembrerebbe far trapelare costantemente la propria presenza e insieme il ruolo del suo doppio speculare, andando a consacrare nei suoi scatti “l’ambivalenza perturbante di rassicurazione e aggressione, di attrazione e repulsione”.89 La fotografia di una stanza vuota scattata dall’Hawarden potrebbe rappresentare l’immagine che lascia trapelare maggiormente il corpo “troppo vicino da vedere”90 della fotografa (Fig. 8).
La mise-en-scène che propone questo scatto non distrae il fruitore con il tipico tableau vivant delle figlie ben vestite usato quasi sempre da Lady Hawarden; piuttosto sembrerebbe costringere chi guarda a pensare alla fotografa.91
Queste le parole di Carol Mavor per descrivere lo scatto:
il fatto che né Clementina Maude, né Isabella Grace, né nessun’altra figlia della Hawarden […] siano immortalate sulla familiare sedia, con il familiare armadietto indiano, la familiare scrivania in stile gotico, nel familiare angolo della stanza con la familiare carta da parati stellata, crea un desiderio di riempimento. Avendo visto quegli oggetti prima, la mia attenzione va agli angoli non ritratti per vedere cosa non c’è. Questa fotografia è permeata dal corpo invisibile della Hawarden: il suo corpo satura la stampa senza essere visto/mostrato. Le ragazze (che potrebbero essere fuori ad una festa, o in gita con il loro padre, o in un’altra parte della casa) lasciano lo spazio aperto: aperto come il libro sulla sedia, […] aperto come l’obiettivo di una fotocamera in una camera oscura. Come un obiettivo di fotocamera aperto al massimo, l’immagine supplica di essere illuminata.92
È per questo che quando osservo questa o un’altra foto di Lady Clementina Hawarden immagino, con commozione, di poter esaudire nuovamente il suo interminabile desiderio di luce.
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