Micla Petrelli: Caro Giap, questo tuo ultimo saggio, Il cassetto dei sogni scomodi. Ovvero, quel che della letteratura importa ai sociologi, è in grado di sollecitare il lettore che sociologo non è fino ad indurlo a porsi la questione dell’identità del ricercatore sociale, dell’ethos di questa scienza che è un mestiere, del suo carattere profondamente “umano”. Ti interroghi su intuizione, curiosità, immaginazione, finzione, categorie che eccedono la dimensione strettamente logica del pensiero e mettono alla prova il metodo della ricerca. Nel percorrere le pagine, la sensazione è che l’oggetto del libro sia la dimensione esistenziale del ricercatore sociale, la conquista della consapevolezza di sé che emerge attraverso il suo rapporto con la letteratura (cosa che tu dichiari subito già dalle prime battute, a dire il vero, ma di cui pian piano diventi, come dire, il testimonial). Anche Olimpia Affuso, nella postfazione, riconosce “l’irrompere della soggettività del sociologo nell’intero percorso della ricerca”. A rafforzare questa idea, il titolo: in genere è a un diario che affidiamo “i sogni scomodi”, diario che custodiamo in un “cassetto”. Ecco, questo saggio ha in diversi momenti il tono della scrittura diaristica (dello scrivente si sente vivamente la voce) ed anche, forse, la sua funzione (registrare l’esperienza della realtà, del sogno, quel “brusio” della lingua così spesso da te evocato). Ora, se pensiamo che scrivere un diario è attività intima e privata, ma che nel contempo implica una esposizione pubblica dell’io, dal momento che comporta un parlar di sé ma pur sempre rivolto ad un altro (anche se quell’altro è un tu che parla tramite me), ecco che ti chiederei quanto la disposizione narrativa, la vocazione al racconto entrano in gioco nella tua esperienza, nella tua vita vissuta di sociologo, e con esse il coinvolgimento dei valori del soggetto che fa ricerca, quella che Robert Nisbet, di cui hai recentemente curato Sociologia e arte, chiama il lavoro creativo del sociologo.
Ercole Giap Parini: Cara Micla, tu entri nelle pieghe più profonde di quanto ho inteso fare. E quanto ho inteso fare è una sorta di percorso inverso. La vita del sociologo, dello scienziato sociale, ma estenderei questa considerazione a tutti quelli che fanno ricerca, è fatta di continue irruzioni di soggettività. In fondo, sembra persino banale ricordarlo, sono i soggetti a fare la ricerca. E la fanno con le loro passioni, le loro idiosincrasie. Con un poco di introspezione possiamo vedere anche come cerchiamo di dare soddisfazione a tutti quei sogni che da piccoli intendevamo realizzare nella vita; e anche questi pesano, forse nei termini di quella parola portoghese, relativamente intraducibile nella lingua italiana, che è saudade. Spero di non scadere nella banalità se confesso che certi miei studi sociologici, per esempio sulla scienza e sulla vita di laboratorio dei fisici, affondano, probabilmente, nel desiderio infantile di diventare uno scienziato. Tutta questa irruzione di soggettività, naturalmente, impariamo a metterla a bada, magari ispirandoci a quella tensione verso la avalutatività weberiana. E facciamo anche di più: attraverso una operazione di ripulitura retorica, pretendiamo di dare carattere di oggettività a quanto facciamo. E lo facciamo con quelle strategie stilistiche che danno l’illusione di porci in terza persona, in una prospettiva impersonale che poco ha a che fare con i soggetti. Il percorso inverso consiste nel tentativo di guardare a quanto accade nelle mente di un ricercatore sociale prima di tutto questo, quando si affanna nella ricerca delle chiavi di lettura più coerenti e utili al suo oggetto e al suo problema di ricerca. Inoltre, ho sempre constatato che, in particolare noi sociologi, sappiamo – almeno perché lo abbiamo codificato – molto di quello che accade una volta che abbiamo definito le questioni di ricerca e magari anche le ipotesi. I manuali di metodologia solitamente partono proprio da lì. Ma, come alcuni maestri insegnano, quando hai lavorato tanto alle tue domande di ricerca, quando hai lavorato tanto alle ipotesi, quando insomma qualcosa di coerente esce da quel brusìo mentale costante, che confonde il lavoro con la vita, sei già a un punto avanzato dell’opera. Oserei dire a quello decisivo. Quanto accade dopo è una conseguenza codificata, prevedibile nella scontatezza della illusione di oggettività. Ma se diamo importanza a quello che accade prima, ecco che forse vale la pena entrare dentro quei processi, fosse anche, questa operazione, senza speranza. Era Ortega y Gasset a ricordarci che gran parte delle cose che vale la pena perseguire consistono in obiettivi che non sono alla portata, ma che solo nel perseguirli producono vitali riarticolazioni. Insomma, una utopia. Riguardo a quanto tu chiami “vocazione al racconto”, c’è sicuramente un gusto tutto particolare che è però della scrittura più in generale. Mi piace usare le parole per afferrare le percezioni, dandomi il compito di descriverle meticolosamente. Una cosa che ho imparato osservando fotografie, di tutti i tipi: mi piace osservarle attentamente per descriverne, con la scrittura, i dettagli più minuti, nella consapevolezza che quel percorrere i profili, le corrugazioni e i dossi delle percezioni non mi darà mai alcun accesso alla oggettività della rappresentabilità di ciò che ho visto, ma mi farà scoprire nuove cose, nuove riarticolazioni delle mie convinzioni e della mia capacità di presa sul mondo. Anche questa è una operazione utopica. Ho voluto narrare quello che succede nella testa di un sociologo quando cerca alleanze, per esempio in un testo letterario, quando ha di fronte a sé il compito difficile – e spesso perseguito in solitudine – della interpretazione della realtà sociale. E descriverlo con quella stessa minuzia.
M. P. - Come ci ha mostrato José Ortega y Gasset – un filosofo che frequenti nel tuo libro – in un saggio aurorale e profetico del 1925, La disumanizzazione dell’arte, il Novecento ha intrapreso ed organizzato la ricerca di forme di arte disumanizzata: arte geometrica, astratta, inorganica, conceptual art, generi e linguaggi dell’arte e della poesia che inseguono procedimenti di elusione metaforica, che de-realizzano la natura e i valori esistenziali ad essa connessi. D’altro canto, come ho recentemente osservato in uno studio sul museo contemporaneo e la memoria, il secolo passato è segnato da non poche importanti tappe nel percorso di umanizzazione della scienza: umani sono divenuti i suoi oggetti, i metodi e i procedimenti (brain pare sempre più spesso declinato in mind, mentre la neurofisiologia – a partire da La visione dall’interno. Arte e cervello di Semir Zeki – riscuote il massimo consenso nello studio e nella comprensione dei fenomeni estetici). Quanto a questi ultimi, si pensi alla definitiva ammissione del carattere radicalmente esperienziale della ricerca antropologica: l’antropologo è colui che nella ricerca sul campo vive prima di tutto un’esperienza soggettiva, e, dunque, al contatto con altri popoli, etnie, culture mette alla prova se stesso e le proprie supposizioni sugli altri, compie un viaggio, una viaggio per i campi (per agros) che lo modifica, un pellegrinaggio, fa in prima persona esperienza di un passaggio rituale, si espone al pericolo, alla paura, all’incertezza. Così, l’antropologia dell’esperienza, come scrive Victor Turner in un saggio del 1985, ricerca nella performance, nelle espressioni artistiche e nei rituali sociali e collettivi (sulla scorta di quanto già John Dewey aveva stabilito inserendo l’arte nel continuum dell’esperienza) la prova delle proprie ipotesi scientifiche. Nel tuo libro, tu compi un’operazione simile: indaghi il rapporto tra il sociologo e l’oggetto letterario definendolo un rapporto dotato di una “forte valenza conoscitiva”, decisivo nel fornire “le chiavi di lettura per la difficile comprensione della realtà”, muovendo dall’idea che sia lo scrittore, il romanziere, che il sociologo praticano la finzione e producono rappresentazioni della realtà, disegnano paesaggi, a volte veri e propri affreschi. Ti chiedo se è possibile, a tuo avviso, parlare nei termini di Ortega di una “disumanizzazione” (astrazione) novecentesca della letteratura a fronte di una umanizzazione della sociologia. In fondo, di astrazione si può parlare dinnanzi agli oggetti che diventano cose che diventano parole accumulate – anche se nella forma organizzata e altrettanto astratta dell’elenco – di La vita, istruzioni per l’uso, di Georges Perec, autore al centro delle esplorazioni del tuo libro, ma anche al cospetto delle strategie di disidentificazione o disconoscimento di sé messe in atto da Fernando Pessoa attraverso l’eteronimia (ricordo il bel saggio da te dedicato al poeta portoghese, Gli occhiali di Pessoa. Studio sugli eteronimi e la modernità).
E. G. P. - La tua domanda è bella e al contempo pone delle questioni molto impegnative. A partire da Ortega, autore che frequentiamo entrambi. Questo autore, quando pensi di averne afferrato un concetto, ecco che in qualche modo lo smonta; come accade, per esempio, con quello relativo alle avanguardie artistiche di inizio Novecento. Da un lato, esse sono considerate portatrici di forte spinta innovativa e capaci di confliggere e superare il modo tipico dell’arte romantica di tratteggiare l’umano, e che ammicca al sentimentalismo di facile, universale comprensione, dall’altro, queste stesse avanguardie sono descritte come portatrici di un impeto giovanilista che rischia di svuotare il concetto stesso di arte. E tutta la tensione ambivalente è racchiusa in una frase delle ultime pagine di quel saggio: “per l’uomo della più recente generazione, l’arte è una cosa senza trascendenza. Una volta scritta questa frase, io stesso ne ho sgomento, avvertendo la sua innumerevole irradiazione di significati diversi”. Ecco, spesso il pensiero di Ortega sgomenta. D’altra parte, si è detto molto del controverso rapporto tra Ortega e Georg Simmel; io credo che con questo sociologo Ortega condivida la pratica euristica dell’ambivalenza. Quindi, proprio da qui intendo partire per rispondere alla tua domanda, ossia dalla considerazione che Ortega intravede in quella disumanizzazione anche una possibilità, che, come scrive Daniele Franco, consiste in un “divorzio dal realismo romantico e naturalista per liberare l’arte stessa dai contenuti specifici che la minacciano nella sua integrità e autonomia”. Dopo questa incursione in campi non propriamente miei, torno a fare il sociologo. Se la disumanizzazione dell’arte è per Ortega il contraltare a certo descrittivismo umano – quel guardare dal vetro della finestra il giardino – , allora forse è bene rivendicare una forza analoga per la sociologia che la faccia uscire da un puro descrittivismo, per quanto sostenuto da apparati di rigorosa metodologia. È il caso di citare, al riguardo, un altro autore a me caro, Robert Nisbet, che aveva in antipatia una certa deriva della sociologia mainstream che soffre di un “narcisismo metodologico […] tanto lontano dalla scienza come lo è l’arte da un cartellone pubblicitario”. Siamo arrivati al punto: una certa deriva della sociologia mainstream a me pare molto simile a quel realismo, praticato nella letteratura e nelle altre espressioni artistiche, dal quale le avanguardie artistiche del Novecento volevano distinguersi. Quel narcisismo metodologico si nutriva – e si nutre ancora – di una inversione che consiste nel “sostituire con tecniche catalogatorie – cito ancora Nisbet – i metodi intellettuali, e quindi nell’eliminare il pensiero teorico da processi della ricerca scientifica”. Da qui la necessità che anche nelle scienze sociali abbiano dimora la metafora, l’intuizione, elementi condivisi proprio con lo sguardo artistico. Elementi che operano in quel brusìo quotidiano della mente e che poco hanno a che fare con le tecniche che pretendono di descrivere la vita nella sua oggettività contabilizzabile. Beninteso, Nisbet non intendeva affatto mettere in discussione i confini tra arte e scienze nelle sue differenti declinazioni, esse restano discorsi separati, dotati di propri codici e di differenti assunzioni di responsabilità di fronte a coloro che ne recepiscono gli stimoli. Nelle pagine del mio libro ho tentato di dare spazio proprio a questa dimensione – forse con un pizzico di incoscienza – nel tentativo di rivendicare una necessità di uscire non dal metodo, ma dal feticismo del metodo, per restituire al pensiero sociologico la sua matrice speculativa e teorica, capace di dare spazio alla intuizione e che sappia mettere in discussione continuamente le categorie a cui di volta in volta approda, per esempio attraverso la pratica della riflessività. Il metodo e le tecniche devono essere una conseguenza di tutto questo lavorìo; troppo spesso si constata come sia il metodo stesso a imporsi sui percorsi di ricerca.
M. P. - A centro della tua riflessione vi è l’idea che la letteratura produce percorsi, processi di conoscenza. Ti riferisci a Paolo Jedlowski il quale indica diverse peculiari modalità con cui ciò accade. Il testo letterario, il romanzo, in particolare, innesca la scoperta di ciò che ha già una sua esistenza, svolge una indagine sull’uomo, stimola il lettore a mettersi nei panni dell’altro, e, infine, è un dispositivo strutturalmente lacunoso. Spetta al lettore colmare le lacune attingendo alle conoscenze di cui già dispone, così che, per un effetto di retroazione, ciò che scopriamo nei mondi narrati accresce la nostra comprensione del mondo reale. Una sorta di flusso dialogico, di bachtiniana memoria, agisce nell’orizzonte prammatico della lettura producendo una “dilatazione dello sguardo” del lettore. Imprecisione endemica della letteratura, sua capacità di approssimarsi alla realtà mancandola, disposizione all’astrazione come possibilità di attingere a nuovi ordini delle cose. Lo psicologo della percezione Rudolf Arnheim, ne Il pensiero visivo, riconosceva al linguaggio verbale un carattere di linearità tale da consentire un’articolazione delle parole solo per successione, rispetto al linguaggio visivo tridimensionale, sinottico, pluridirezionale. Di conseguenza, una immagine letteraria riuscita può crescere, secondo Arnheim, solo per aggiustamenti successivi (“ogni parola, ogni frase, viene corretta dalla successiva”), abbordando per passaggi progressivi la situazione da descrivere, grazie ad un’operazione di selezione, di scelta dei dettagli da porre in primo piano, di montaggio, in modo da ottenere un effetto di realtà della scena attraverso la quale condurre l’attenzione del lettore. Insomma la descrizione non può che fondarsi sulla interpretazione. Questo è quanto il medium linguistico, con le sue idiosincrasie, consente di fare, trasformando un limite in una opportunità, potremmo dire. Ora, dal momento che la tua ricerca sembra suggerire l’ipotesi che letteratura e ricerca sociale, o meglio, testo letterario e testo della descrizione scientifica posseggano dei tratti strutturalmente simili (Arnheim direbbe “isomorfi”) – si pensi al ruolo della metafora nel linguaggio scientifico – vorrei chiederti quanto il linguaggio verbale (e, soprattutto, quali forme del linguaggio verbale, la descrizione piuttosto che il racconto o il romanzo) siano in grado di rappresentare quegli scenari complessi che sono i fenomeni sociali.
E. G. P. - Con Paolo Jedlowski c’è un dialogo costante, se non altro perché è tra le prime persone con cui discuto le mie cose, ben prima della pubblicazione. Jedlowski è stato tra i primi a mettere in evidenza, almeno in Italia, la proficua riarticolazione del discorso sociologico attraverso il confronto costante con la molteplicità di narrazioni nelle quali siamo costantemente coinvolti, non solo e non necessariamente di natura letteraria. Ed è proprio il carattere lacunoso delle narrazioni, di ogni narrazione, a stimolare i processi che tu indichi, costringendo il lettore e colui che ascolta, a uscire dalla sua passività (cito ancora Ortega). A proposito della imprecisione della letteratura, è possibile ricordare quanto scrive La Capria: “Un romanzo anche quando è preso dalla realtà non la riproduce mai esattamente, è un modello di realtà”; o uno studioso come Arturo Mazzarella quando ricorda che proprio la finzione mette in gioco “ombre che riflettono la realtà attraverso contorni necessariamente sbiaditi e alterati”. Insomma, una costitutiva imprecisione che apre mondi e possibilità proprio perché chiama in causa il lettore che necessariamente interroga il testo, e lo fa dalla sua prospettiva immancabilmente situata. E che cambia nel corso del tempo, estendendo le possibilità di quel dialogo. E tutto ciò, come ben metti in evidenza citando Michail Bachtin, accresce le nostre possibilità di comprensione del mondo. E forse qualcosa di più, accresce la nostra possibilità di interpretarlo costruttivamente. Scrivendo e leggendo non soltanto si amplifica quello che noi sappiamo del mondo, ma costruiamo anche mondi possibili… apriamo nuovi spazi di possibilità. E allora il limite, la imprecisione, la sfocatezza del mondo ritratto (mi viene in mente ancora l’esempio del giardino e del vetro nelle riflessioni sulla disumanizzazione dell’arte di Ortega) come nuova possibilità che innesca, nella infinita ricchezza delle parole e delle regole che le legano insieme, alcune possibilità tipiche della specie umana.
Per quanto riguarda la predilezione di questo o quel genere letterario, la sociologia si accosta al linguaggio verbale a tutto campo. (Non sto a sottolineare il rapporto che il sociologo deve intrattenere con le parole che usa, anche qui vi sono forme più o meno standardizzate in una retorica disciplinare, così come nuove forme di sperimentazione che non disdegnano incursioni narrative). E davvero non credo che vi sia un genere prediletto: tanto un romanzo quanto un racconto o una poesia sono tracce che inducono a innescare un processo dialogico in cui il ricercatore sociale mette in gioco tutta l’esperienza di cui dispone riarticolando il suo sapere e proponendo reinterpretazioni del suo modo di comprendere l’oggetto dei suoi studi. Aggiungo che la riflessione sociologica sulle parole non deve soltanto tendere a cogliere rappresentazioni di quelli che tu chiami scenari complessi dei fenomeni sociali; deve soprattutto entrare nella officina dove quegli stessi scenari prendono corpo. Ogni scenario, ogni fenomeno, è costituito a partire da una semantica. Un sociologo come Niklas Luhman, per esempio, ha studiato un fenomeno complesso, come l’amore, che mette in gioco i sentimenti dei singoli (e che i singoli percepiscono come costitutivamente individuali), a partire dalla semantica sociale che quei sentimenti struttura. Almeno da una certa prospettiva, quindi, le parole non si limitano a descrivere le cose, diventano le cose stesse.
M. P. - Nel parlare dell’esperienza della lettura, e nel precisare che “ogni lettura è una prima lettura”, nel senso che siamo soggetti a “processi di continua riarticolazione delle cornici interpretative che adottiamo” nel leggere uno stesso testo in condizioni e momenti diversi della nostra vita, citi Maurice Halbwachs. E ogni volta in cui incontro il pensiero del sociologo francese, autore de La memoria collettiva, mi si profila l’immagine dell’uomo detenuto nel campo di sterminio di Buchenwald, così come ci viene ricordato, morente, dallo scrittore spagnolo Jorge Semprún, allievo di Halbwachs (anch’egli a Buchenwald in quegli anni, ma sopravvissuto al campo) nel romanzo L’écriture ou la vie. Vorrei proporti di riascoltare le parole di Semprún:
J'avais pris la main de Halbwachs qui n'avait pas eu la force d'ouvrir les yeux. J'avais senti seulement une réponse de ses doigts, une pression légère: message presque imperceptible.[…] Un peu plus tard, alors que je lui racontais n'importe quoi, simplement pour qu'il entende le son d'une voix amie, il a ouvert les yeux. La détresse immonde, la honte de son corps en déliquescence y étaient lisibles. Mais aussi une flamme de dignité, d'humanité vaincue et inentamée. La lueur immortel d'un regard qui constate l'approche de la mort, qui sait à quoi s'en tenir, qui en a fait le tour, qui en mesure face à face les risques et les enjeux, librement: souverainement.
Dignità della morte nel disfacimento del corpo di Maurice Halbwachs, il maestro, e sua sopravvivenza nella pagina di Semprún. Sul legame tra memoria – narrazione – esperienza della morte come oblio, molto ha da dirci, in effetti, Semprún. Che cosa è accaduto a Semprún? Dal 1946 aveva abbandonato il libro che da tempo tentava di scrivere sulla sua esperienza nel campo, risolvendosi a scegliere la vita: ovvero una lunga cura di afasia per tornare a vivere (sopravvivere). Scrivere, tornare a scrivere era un ricadere nella memoria dell’orrore, restare presi nell’odore della morte, nel fumo dei camini di Buchenwald:
Dal mio ritorno da Buchenwald, io ero preso nell’immobile vertigine di due bisogni o desideri pressanti ma contraddittori. Il desiderio di vivere, o di tornare a vivere, perciò di dimenticare. Il desiderio di scrivere, di elaborare e trascendere l’esperienza del campo attraverso la scrittura, perciò di rammentare, di tornare a vivere nella memoria, senza pause, l’esperienza della morte.
Per Semprún scegliere la vita, scegliere di tornare a vivere è abolizione della memoria, lutto della scrittura. Scegliere la scrittura è negazione della vita: “la scrittura mi rinchiudeva nell’universo della morte, mi soffocava senza rimedio”. E allora come sopravvivere all’esperienza del male radicale, alla memoria dell’esilio e nello stesso tempo ritrovare il potere di scrivere? Semprún decide di tornare alla letteratura, solo dopo circa vent’anni dall’esperienza del campo di concentramento di Buchenwald, scrivendo Il grande viaggio in francese. Scrivere sarà possibile a condizione di cancellare insieme alla propria identità la propria lingua madre, dunque ridandosi lingua e origini, ciò che meno ci appartiene, e intraprendere così un nuovo cammino della scrittura verso il linguaggio, dove non si danno distanze o separazioni (in fondo, come scrive Ortega, “né della propria nascita, né della propria morte si ha esperienza”): “In fin dei conti, la mia patria non è la lingua, né il francese né lo spagnolo, la mia patria è il linguaggio. Ovvero uno spazio di comunicazione sociale, d’invenzione linguistica: una possibilità di rappresentare l’universo”. Ecco, Giap, non credi si possa vedere proprio in Halbwachs e Semprún, incarnati nelle figure di questi due uomini, i due termini del rapporto dialogico tra sociologia e letteratura, entrambi coinvolti nella costruzione di una conoscenza del mondo che passa attraverso la relazione drammaticamente vissuta in prima persona tra la memoria, la scrittura, la vita? Entrambi impegnati a testimoniare la possibilità che il linguaggio, l’invenzione linguistica, sia il vero spazio di comunicazione sociale, lo spazio di quella che Semprún chiamò, in seguito, “la memoria collettiva della nostra morte”?
E. G. P. - Pur conoscendo il rapporto che vi era tra di loro e pur avendone ben presenti i contributi, rispettivamente, al pensiero sociologico e alla letteratura, non avevo mai pensato a Maurice Halbwachs e a Jorge Semprún come ai termini di quel rapporto dialogico tra sociologia e letteratura. E di questa sollecitazione ti ringrazio, perché mi dà motivo di ulteriore riflessione. Diamo ormai abbastanza per scontato, tanto da esservi una sterminata bibliografia al riguardo, che la sociologia possa trarre alimento dalla letteratura in vari modi. Molto meno – seppure qualche volta è stato fatto – si pensa al rapporto inverso. Questo è un caso in cui i lavori pionieristici che andava facendo sulla memoria Halbwachs, e interrotti da quella morte i cui tratti citi, non possono non avere giocato un ruolo importante nella definizione della scrittura di Semprún. Naturalmente nella forma catalizzata, fin quasi a sfidare la portata del pensiero e della sua rappresentazione, dalla comune esperienza del campo di sterminio. Da questa esperienza, la scrittura di Semprún esce condizionata, trasformata nella forma di scelte e di omissioni; ma è sicuramente trasformata anche dall’avere fatto esperienza degli studi di Halbwachs, per il quale la memoria, i quadri della memoria, andavano a incidere profondamente sulla costruzione dell’identità. Insieme, naturalmente, all’oblio. E le riflessioni che riporti di Semprún sembrano esserne la vivida testimonianza. Mentre solleciti questa possibilità di riconoscere i termini di quel rapporto dialogico, sollevi anche questioni cruciali e complesse per la sociologia in generale e per quella che studia la memoria in modo particolare. Come per esempio il problematico rapporto tra la possibilità di tornare a vivere, dopo esperienze traumatiche che tolgono la parola. Dobbiamo a Walter Benjamin l’insegnamento che dalla guerra (e, quindi, ancor più da una esperienza come quella del campo) si torni senza parola. Ma quando e a quale costo si può ritrovare quella parola che quindi diventa scrittura, racconto (per non parlare di tutte le altre espressioni artistiche che si sono confrontate con il trauma)? Sulla base dell’esperienza di Semprún, poni la questione che scrivere sia possibile a condizione di cancellare, insieme alla propria identità, la propria lingua madre. Ma vi è un altro punto che tocchi ed è cruciale per la sociologia. Uno storico come Enzo Traverso e studiosi della memoria, come Paolo Jedlowski e Olimpia Affuso – che peraltro, come hai ricordato tu stessa, ha scritto la postfazione del mio libro – mettono in evidenza come solo dopo un certo periodo di tempo (i vent’anni di Semprún, per esempio) è possibile ritrovare la parola nella dimora del linguaggio e non della lingua (come tu metti in evidenza con le parole di Ortega). È questa stessa dimora, con la identità che si porta dietro, a consentire che il trauma non resti un mero choc, perché essa consente l’elaborazione di quanto è stato vissuto.
Bibliografia
Arnheim R. (1975). Il pensiero visivo. Torino: Einaudi.
Halbwachs M. (1987). La memoria collettiva (1950), a cura di P. Jedlowski. Milano: Unicopli.
La Capria R. (2009). L’armonia perduta. In Id. Napoli. Milano: Mondadori.
Luhmann N. (2016). Amore. Un seminario, a cura di R. Prandini. Milano-Udine: Mimesis.
Mazzarella A. (2004). La potenza del falso. Illusione, favola e sogno nella modernità letteraria. Roma: Donzelli.
Nisbet R. (2016). Sociologia e arte (1962), a cura di E.G. Parini. Milano-Udine: Mimesis.
Ortega y Gasset J. (2005). La disumanizzazione dell’arte (1925). Roma: Sossella.
Parini E.G. (2012). Gli occhiali di Pessoa. Studio sugli eteronimi e la modernità, postfazione di P. Jedlowski. Macerata: Quodlibet.
Id. (2017). Il cassetto dei sogni scomodi. Ovvero, quel che della letteratura importa ai sociologi. Milano: Mimesis.
Perec G. (2012). La vita, istruzioni per l’uso (1978). Milano: Rizzoli.
Semprún J. (1994). L'écriture ou la vie. Paris: Gallimard.
Turner V. (2014). Antropologia dell’esperienza, a cura di S. De Matteis. Bologna: il Mulino.
Zeki S. (2003). La visione dall’interno. Arte e cervello. Torino: Bollati Boringhieri.