La finzione come attività psichica che “dà forma”
Si tende a considerare la realtà e la finzione come dimensioni diverse e in gran parte opposte. Il pensiero indirizzato verso la realtà è centrato su fatti storici, concreti, materiali. Quello focalizzato sulla finzione si basa su uno scarto dalla realtà, che aggira per mirare a territori di fantasia. Concezione indiscutibile, almeno a livello di evidenza. Ma se si approfondisce lo sguardo si nota che questa differenza non è così netta.
La parola latina fingere significa “dare figura”, “dare forma”, “rappresentare una cosa sotto una forma particolare”.1 Nel linguaggio comune “finzione” è diventato sinonimo di “simulazione”, “fantasia”, “immaginazione”. Ma se “fingere” significa “dare forma”, qualunque manifestazione del pensiero rientra nell’ambito della “finzione”. Il pensiero dà forma, e ciò accade quindi tanto nella narrazione d’immaginazione quanto in quella autobiografica. Quest’ultima in particolare consente di dare forma ai ricordi, alla storia, all’identità dell’autore, rispettando per quanto possibile la realtà.
Il “dare forma” della scrittura di fiction si pone su un altro piano: tende infatti a distaccarsi dal rispetto della realtà fattuale e trova la sua specificità proprio nel suo esserne, in misura variabile, svincolata. Questo tipo di narrazione veleggia verso la creazione di una distanza dai dati di realtà che varia a seconda dei generi. Non mira alla verità (concetto su cui ci soffermeremo più avanti) ma alla coerenza.
Se si osserva in prospettiva diacronica lo sviluppo delle capacità narrative del bambino, si nota che dapprima le sue storie narrano le azioni abituali (script), quindi gesti e fatti che rientrano nella norma. In un secondo tempo entrano in scena le narrazioni di esperienze personali (quindi sempre episodi reali, ma singolari e specifici, pensati come eccezioni rispetto alla norma e alla quotidianità). Entrambe queste fasi sono centrate in direzione autobiografica e l’io del bambino è al centro delle sue narrazioni. Più tardi, verso i quattro anni, in coincidenza con le prime conquiste della capacità di “mentalizzazione”,2 inizia a raccontare storie di fantasia. Si tratta di un’attività più complessa, in quanto non si appoggia a oggetti e azioni concrete e anzi spesso ne costituisce il ribaltamento, il controcanto.
Le prime due espressioni narrative del bambino rientrano nella forma di pensiero definita da Fonagy3 “modalità dell’equivalenza psichica”, nella quale i contenuti della mente sono del tutto coincidenti con quelli della realtà esterna. La terza appartiene alla “modalità del far finta”, in cui il bambino usa un oggetto fingendo che sia un’altra cosa e costruisce il proprio gioco, spesso condiviso con altri bambini, con la consapevolezza che il bastone che regge non è una spada laser, ma che nella logica di quel contesto di simulazione è “come se” lo fosse.
La memoria
La memoria è la capacità della mente di conservare e richiamare alla coscienza informazioni, elementi ed esperienze riferite al passato.
Non va dimenticato però che la memoria consiste non in un semplice recupero di dati, ma in una (ri)costruzione, condizionata ed orientata da esperienze e conoscenze successive, emozioni, amnesie, fantasie, rimozioni, resistenze e difese.
Un altro aspetto importante è quello studiato da Bourdin,4 il quale sostiene che l’oblio non è un difetto, ma è una condizione di esistenza della memoria. Non esiste infatti conoscenza senza memoria, come non esiste conoscenza senza oblio. Il sentimento di identità personale è un insieme di memoria e di oblio.
Sempre a proposito della memoria e delle sue possibili imprecisioni, è interessante soffermarsi sul concetto freudiano di “ricordo di copertura”,5 fenomeno che si manifesta anche al di fuori della stanza di analisi e che consiste in una scena ritenuta reale dal soggetto, ma che in realtà non è mai avvenuta. Viene creata come schermo che ha la funzione di oscurare ricordi reali particolarmente dolorosi e traumatici. Anzieu,6 in relazione allo stesso fenomeno, parla di “ricordo schermo” che costituisce una membrana protettiva a una memoria inconscia e inconfessabile.
Un fenomeno altrettanto interessante che in qualche modo rientra in questa categoria è costituito dai ricordi di ciò che non è mai avvenuto e che comparivano nelle narrazioni delle pazienti isteriche di Breuer e di Freud.7
Può essere interessante a questo punto riportare qualche citazione riguardante la memoria tratta da opere letterarie, ambito in cui l’autore può permettersi un approccio sferzante e ironico e una maggiore libertà rispetto agli studi psicologici e in generale scientifici:
La memoria gioca brutti scherzi. Memoria è un sinonimo di storia, e non c’è niente di più inaffidabile.8
La memoria cos’è? Nient’altro che il vaneggiamento imperfetto di stolti che non vogliono convincersi della necessità di dimenticare. Quello poi che non si può distruggere si può alterare.9
- La memoria lavora in entrambi i sensi, disse la Regina.
- Sono sicura che la mia funziona solo in una direzione, fece notare Alice. Non posso ricordarmi le cose prima che avvengano.
- È una memoria di scarso valore quella che lavora solo per il passato, osservò la Regina.
- E voi, quali cose ricordate meglio?, Alice si arrischiò a domandare.
- Oh, cose che sono accadute fra due settimane, replicò la Regina con noncuranza.10
Verità e menzogna
Anche in relazione al concetto di verità riferita alla narrazione autobiografica e poi alla verità tout court, iniziamo riportando due citazioni tratte da altrettanti romanzi.
Da quando Flaubert ha detto “Madame Bovary sono io”, ognuno capisce che uno scrittore è, sempre, autobiografico. Tuttavia si può dire che lo è un po’ meno quando scrive di sé, cioè quando si propone più scopertamente il tema dell’autobiografia, perché allora il narcisismo da una parte e il gusto del narrare dall’altra possono portarlo ad una addirittura maliziosa deformazione di fatti e persone.11
Il guaio, se scrivi un libro su di te, è che devi rigar dritto. Quando parli di un altro puoi stiracchiare la verità… Se parli di te… ti rendi conto all’istante che non sarai ladro, ma sei di sicuro uno sporco bugiardo.12
Si tratta evidentemente di affermazioni estreme, che nel secondo autore appaiono anche intrise di uno spirito umoristico e provocatorio, ma che inducono a riflettere sul concetto di verità riferito al pensiero autobiografico. Al di là dei contenuti, va evidenziato che nella prospettiva implicita di questi autori la verità coincide con la realtà dei fatti, con quella che i francesi definiscono vérité événementielle, ed entrambe si contrappongono alla menzogna. La questione si gioca quindi su due versanti: la verità (che coincide con la realtà) da un lato e la menzogna dall’altro. Si può schematizzare questa concezione attraverso la formula:
Verità (= realtà) ≠ menzogna
Nel brano seguente, tratto dal romanzo Le braci di Sandor Marai, si nota un importante scarto logico rispetto alle due citazioni precedenti:
- Cosa vuoi da quell’uomo?, chiese la balia.
- La verità, disse il generale, a voce molto bassa.
- La verità la conosci bene.
- Non la conosco. […] È proprio la verità che non conosco.
- Però conosci i fatti, disse bruscamente la balia, in tono aggressivo.
- I fatti non sono la verità, rispose il generale. I fatti ne sono soltanto una parte.13
La verità, in questo dialogo, non si identifica con la realtà. Quest’ultima coincide con “i fatti”, che costituiscono un travestimento, un mascheramento, una deformazione della verità, che è una dimensione celata, agli altri e anche a se stessi, tanto che in un altro punto dello stesso romanzo, Marai fa dire a un personaggio: “E poi, in fondo, qualcuno ha mai detto o scritto la verità?”.14
La prospettiva che emerge in questo testo è più stratificata e complessa della precedente: la verità non corrisponde alla realtà, ed è dotata di una componente di mistero e di oscurità ineliminabile.
Una concezione simile è quella di Bion,15 il quale distingue tra verità (nucleo irraggiungibile di sé che non può essere conosciuto, ma solo “essere stato”, e che viene indicato con la lettera O, iniziale di “origine”), falsità (dimensione ineliminabile del pensiero: ogni pensiero è falso, una volta formulato, se lo si compara con la verità, la O, a cui si riferisce) e menzogna (volontaria deformazione della verità che boicotta l’attività di pensiero e si oppone alla conoscenza). Il pensiero dell’uomo riesce a raggiungere, in condizioni per così dire normali, la falsità; la verità si può solo sfiorare, intuire con la psicoanalisi oppure attraverso l’arte.
Mentre nei due testi di Giuseppe Berto e di Groucho Marx emerge una dimensione bipolare in cui la verità e la realtà coincidono e si contrappongono alla menzogna, ora prende corpo una terza dimensione, e lo schema assume un aspetto più complesso:
Verità ≠ realtà (= falsità, = pensiero) ≠ menzogna
Bion considera la verità essenziale per la crescita mentale, ma la capacità dell’individuo di tollerare la verità riguardo a se stesso è estremamente precaria. Per quale motivo?
Lasciamo la parola a un altro romanziere, Albert Camus, che nella sua opera La caduta scrive:
Che importa se [le mie storie] sono vere o false se, in ogni caso, esse sono significative di ciò che sono stato e di ciò che sono? Si vede talvolta più chiaro in colui che mente che in colui che dice la verità. La verità, come la luce, acceca. La menzogna, al contrario, è un bel crepuscolo, che valorizza ogni oggetto.16
La verità è fonte di dolore. Non solo l’anelito alla conoscenza non può mai essere soddisfatto o realizzato completamente, ma la persona si difende dalla verità attraverso strategie elusive che conducono alla menzogna. Questa ha la funzione di barriera protettiva nei confronti del dolore che viene generato dal contatto con la verità. La conoscenza vera implica una trasformazione dolorosa, un “cambiamento catastrofico”,17 da cui l’individuo si tutela attraverso l’attivazione di una serie di resistenze e di difese.
Realtà e invenzione, autobiografia e fiction
Quanto si è osservato finora può aiutare ad affrontare in modo consapevole e critico il rapporto complesso tra realtà e invenzione e tra autobiografia e fiction.
Negli anni in cui si sono affermate le teorie letterarie formaliste, strutturaliste e semiologiche, la biografia dell’autore era considerata un dato esterno alla sua opera, non era ritenuta un aspetto da considerare in sede di critica letteraria. Oggetto di osservazione, in questa prospettiva, è il testo; l’autore si colloca su un piano logico diverso, esterno. Il testo è indipendente dal suo autore e va studiato con criteri oggettivi e scientifici. Tra l’autore e il suo testo c’è una distanza incolmabile. La biografia dell’autore non solo è ininfluente nei confronti dell’opera, ma può condizionare la lettura e l’analisi del testo.
Su posizioni del tutto opposte si colloca Freud, che osserva l’opera d’arte e il testo letterario come espressioni dell’inconscio dell’autore. Sulla base di questi presupposti, il testo si limita ad essere lo specchio dei contenuti psichici e della storia del suo autore. Idea che autorizza Freud, in modo tecnicamente ed epistemologicamente aberrante, ad effettuare una sorta di psicoanalisi dell’autore attraverso la sua opera. È una concezione del tutto opposta alla precedente: tutto ciò che compare nel testo è necessariamente autobiografico.
È lo stesso Freud però che ci aiuta a uscire da questa opposizione frontale tra punti di vista estremi e ben poco dialettici. Nella sua opera Il Poeta e la fantasia,18 egli sostiene che i personaggi di un romanzo sono l’incarnazione di parti dell’Io dell’autore. Quindi nessuno scrittore può non essere autobiografico. E nemmeno noi possiamo non esserlo, perché quando parliamo di qualsiasi argomento o raccontiamo una storia anche di fantasia, non possiamo esimerci dal proiettare parti di noi stessi e del nostro mondo interno nel nostro discorso o nella nostra narrazione.
Ma questa posizione risulta ancor più interessante se intrecciata con quanto ha affermato lo stesso Freud nel Caso clinico di Dora,19 in cui racconta che nella stanza di analisi invitava la sua paziente a parlare di sé liberamente e senza censure (quindi in direzione autobiografica), con la convinzione però che ciò che raccontava fosse solo in parte credibile, perché inevitabilmente deformato dalle resistenze e dalle difese. Come dire: mettiamo noi stessi in tutto ciò che facciamo, diciamo o scriviamo, anche senza esserne consapevoli, ma la verità autobiografica e la sua deformazione, quindi anche l’immaginazione e la fantasia, sono del tutto inestricabili, con buona pace di chi crede che si tratti di dimensioni radicalmente diverse.
L’Io autobiografico come costrutto psichico
Sempre a proposito di narrazione autobiografica e di verità, va ricordato che l’Io mira alla “costruzione” di un’immagine del soggetto e contemporaneamente si definisce attraverso quella stessa costruzione. L’Io è il fulcro della prospettiva dell’individuo non solo su sé stesso, ma anche sulla realtà esterna e interiore. Inoltre, come dice Sullivan20 in prospettiva psicoanalitica, l’io attiva sempre una “disattenzione selettiva”, oscurando ciò che risulta sgradevole o doloroso al soggetto; concezione condivisa in ambito neuroscientifico da Metzinger,21 che esprime lo stesso concetto parlando di “tunnel dell’io”.
Ancora in riferimento al tema del rapporto tra autobiografia e verità abbiamo già evidenziato come la memoria, autobiografica e non solo, sia tutt’altro che infallibile.
Detto ciò, crediamo che gli aspetti evidenziati finora non costituiscano dei punti di debolezza, ma al contrario siano i tratti fondamentali e produttivi del pensiero autobiografico, che nel suo scavo non mira al medesimo obiettivo ricercato da uno storico o da un archeologo. Chi affronta questo percorso di autoanalisi segue itinerari complessi basati su uno scambio di rispecchiamenti tra diverse rappresentazioni di sé che consistono nell’“autore reale”,22 esterno al testo, nell’“autore implicito”,23 che emerge in filigrana dal testo stesso, nel personaggio che di solito è il protagonista e nell’“Altro in Sé”,24 sorta di “giudice interno” che valuta e soppesa lo scarto tra le immagini precedenti. Inoltre l’autore è libero di utilizzare le difese che preferisce, al punto che Duccio Demetrio sostiene il suo diritto a censurarsi, ad avere dei segreti.25 L’autobiografo decide cosa scrivere e cosa tralasciare, come accostarsi ad alcuni snodi della propria esistenza, in funzione di una serie di variabili soggettive, non ultima quella relativa al grado di sofferenza che ritiene tollerabile. Le difese sono fondamentali per scendere a patti con l’immagine di sé, per “darle forma”. Possono costituire un problema se sono troppo rigide e arcaiche e quindi ostacolano il pensiero. Ma di per sé, soprattutto quelle evolute, sono fondamentali perché costituiscono un cuscinetto, un filtro nei confronti della realtà spesso ostile.
La necessità di abbassare o eliminare le difese in ambito psicoanalitico è legato all’obiettivo di far emergere contenuti inconsci rimossi, e in effetti in questa logica esse costituiscono un ostacolo. La prospettiva dell’autobiografo è orientata invece in una direzione ben diversa. La scrittura autobiografica, infatti, può raggiungere non l’Inconscio (se usiamo questo concetto nell’accezione psicoanalitica), ma il Preconscio; può far emergere contenuti non rimossi, bensì repressi. Possono venire alla luce aspetti del nostro passato che abbiamo dimenticato, oscurato, dai quali abbiamo distolto lo sguardo, ma non si tratta di contenuti né rimossi né scissi. Ciò che emerge nelle narrazioni autobiografiche, per quanto doloroso, è emotivamente e cognitivamente gestibile dal soggetto. E questa gestibilità è plasmata e resa possibile dalle nostre difese. Compito della scrittura autobiografica non è abbassare né eliminare le difese, ma selezionarle e utilizzare quelle che risultano più sintoniche con il sentire dell’autore.
Infine, tornando all’io autobiografico, bisogna evidenziare come esso sia un’entità complessa. A questo proposito Demetrio scrive: “quando ripensiamo a ciò che abbiamo vissuto, creiamo un altro da noi […], ci sdoppiamo, ci bilochiamo, ci moltiplichiamo”, costruiamo un’immagine di noi stessi che “prende corpo gradualmente in un altrove e che vive di un’essenziale pluralità e molteplicità”.26
Tutto è dunque autofiction?
Tutto ciò che abbiamo osservato finora implica forse che, se l’autobiografia non mira a una verità fattuale, allora in essa può trovare spazio l’immaginazione? La risposta, per quanto apparentemente strana, è affermativa. Si può citare a questo proposito Edgar Morin, il quale sostiene che “la nostra mente secerne continuamente immaginario”.27 Verso qualunque oggetto e attività sia orientata, la psiche è una struttura che costruisce storie, che connette eventi, pensieri, emozioni e quindi comprende anche il ricorso all’immaginazione.
Anche Freud è convinto che fantasia e realtà si intreccino nella mente del soggetto, pur avendo una concezione negativa della fantasia che, secondo lui, impone un allontanamento dalla realtà ed è il risultato di una disposizione mentale difensiva. Secondo il suo punto di vista l’immaginazione è utilizzata per non vedere.
La posizione di Melanie Klein a questo proposito è diversa: la fantasia (inconscia) è un’attività psichica che accompagna ogni nostro pensiero ed esperienza e ne costituisce la ragion d’essere profonda. Realtà e fantasia (che non è in psicoanalisi identica all’immaginazione, ma condiziona intimamente quest’ultima) sono sempre strettamente interconnesse e la prima è orientata e spesso plasmata dalla seconda.
Un’ennesima citazione scherzosa e provocatoria tratta ancora dall’ambito letterario che riguarda la fantasia, l’immaginazione e la realtà. L’autore è Thomas Pynchon:
- Io – disse Oedipa – ero venuta nella speranza che mi facesse uscire da questa mia fantasia.
- E l’accarezzi, invece! – gridò Hilarius [il suo psicoanalista, ndr] con slancio. – Sennò cosa vi resta, a tutti voi? La tenga stretta per il suo piccolo tentacolo, non lasci che i freudiani gliela portino via con le seduzioni, o i farmacisti con il veleno. L’abbia cara, qualunque cosa sia, perché quando la perde finirà come gli altri. Inizierà a smettere di esistere.28
Che la narrazione autobiografica si possa aprire all’immaginazione-fantasia e viceversa la narrazione di immaginazione-fantasia sia radicata nella storia dell’autore è confermato da importanti esempi letterari. John Fante soprattutto con la quadrilogia di Arturo Bandini, Philip Roth con i personaggi di Nathan Zuckerman e David Kepesh, Céline, Stendhal, Balzac, James Ellroy, Marguerite Duras, Jean Genet, Virginia Woolf, Irène Némirovsky, Philip K. Dick, Georges Simenon, Mary Shelley, Emily Brontë, Lev Tolstoj sono solo alcuni dei tantissimi scrittori che hanno articolato la loro poetica su una sistematica contaminazione tra le due sfere.
La scrittura trans-autobiografica
Duccio Demetrio, Vincenzo Todesco ed io circa otto anni fa abbiamo pensato di realizzare, all’interno della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, un percorso di formazione basato su una narrazione che contaminasse autobiografia e immaginazione e che attingesse alle ricadute riparative prodotte da entrambe quelle modalità di pensiero. È nato così il corso denominato Mimesis, in cui si utilizza una scrittura definita trans-autobiografica29 in quanto attraversa alcuni snodi dell’autobiografia dell’autore e decolla poi in direzione della fantasia. L’obiettivo principale consiste nell’aprire lo sguardo dell’autore al possibile, offrendogli gli strumenti tecnici, di visione e immaginativi che gli consentano di plasmare una rappresentazione di sé più leggera, duttile, parte reale e parte fantastica.
Va precisato che si tratta non di un tradimento o di una deviazione nei confronti del pensiero autobiografico, ma di un suo arricchimento ottenuto attraverso la leggerezza e la contemporanea serietà del gioco e affiancando al pensiero dell'“equivalenza psichica” (realistico) quello del “far finta” (ludico e fantastico), con la convinzione che l’immaginazione non sia un capovolgimento della realtà ma un suo ampliamento.
David Foster Wallace30 sostiene che la differenza tra fiction e non-fiction non riguarda l’obbligo di riprodurre la realtà da un lato o la possibilità di crearne una nuova dall’altro, uno scrupoloso controllo di dati in un caso e una libertà assoluta nell’altro, poiché entrambe le modalità narrative sono il risultato di “spericolati funambolismi su un abisso”. Questa idea coincide con quella di Haruki Murakami, secondo il quale entrambe le forme narrative permettono di ricercare ed elaborare quello che egli definisce l’“elemento tossico che fa parte del nucleo emotivo dell’essere umano”.31
La scrittura trans-autobiografica offre all’autore la possibilità di indagare sull’abisso della sua interiorità da due distanze diverse e attraverso due prospettive complementari, utilizzando sia lo sguardo diretto dell’autobiografo sia quello indiretto del romanziere. Mentre il primo sceglie di fissare lo sguardo sull’oggetto della sua indagine, il secondo ricorre a una modalità indiretta che richiama quella adottata da Perseo nei confronti di Medusa. La scelta di uno o dell’altro approccio dipende dal sentire della persona, dalla sua disposizione d’animo, dalla sua capacità di tollerare il dolore, dalla considerazione che l’immaginazione non rinnega la propria storia personale, ma può farla osservare da una prospettiva differente. Qualcuno preferisce la prospettiva autobiografica perché ritiene che quella trans-autobiografica comporti un’espropriazione e alterazione della propria storia; qualcun altro preferisce il ricorso all’immaginazione perché la ritiene uno strumento che, unito alla narrazione di sé, possa espandere il proprio sguardo e il proprio pensiero.
L’autobiografia, come si è visto, non può fare a meno di attingere all’invenzione in quanto potenzialità creativa del pensiero. Ma simmetricamente anche la narrazione d’invenzione non può evitare di attingere alla storia dell’autore. Entrambe trovano nei contenuti della mente dell’autore il materiale a cui attingere. Richiamando Lavoisier si può affermare che nella nostra mente nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma. L’invenzione non è altro che un riassemblamento di ciò che si trova già nella nostra memoria conscia, preconscia e forse anche inconscia e che comprende non solo eventi ed esperienze personali, ma anche episodi di cronaca, scene di film, passaggi di romanzi, frasi sentite da persone sconosciute… Insomma, tutto ciò con cui siamo entrati in contatto in qualche modo e che abbiamo introiettato e accantonato in un angolo della nostra mente è materiale da costruzione di storie, siano esse autobiografiche o di fantasia. Tutto è di fatto autobiografico perché, per averlo introiettato, ha catturato la nostra attenzione, ci ha provocato commozione, sdegno, incanto, sorriso, anche se è capitato ad altri o l’abbiamo trovato scritto in una pagina di giornale. In ogni caso è entrato a far parte del nostro archivio interiore a cui attingiamo per costruire storie. Abbiamo definito questi materiali che utilizziamo per dar vita alle nostre narrazioni “nuclei proto-narrativi interni”.32 Sono microframmenti di storie potenziali che colleghiamo tra loro secondo modelli di connessioni narrative che sono stati a loro volta interiorizzati e che in gran parte sono condizionati culturalmente. Attingiamo a questo archivio interiore di contenuti e connessioni per dar vita alle nostre narrazioni, siano esse autobiografiche o d’immaginazione.
La scrittura trans-autobiografica è stata portata con successo in diversi contesti quali strutture psichiatriche, classi di scuole primarie, gruppi di persone separate e di madri che hanno manifestato il bisogno di indagare i loro ruoli di madri e di figlie; con le dovute modificazioni ha trovato interessanti applicazioni anche nell’ambito della medicina narrativa, in un reparto di oncologia pediatrica.33
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Fonagy, Gergely, Jurist, Target (2005).↩
Ibidem.↩
Bourdin (2008).↩
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Enriquez (1996).↩
Breuer, Freud (1892-1895).↩
MacDonald (1999, p. 89).↩
Winterson (1999, p. 112).↩
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Ivi, p. 95.↩
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Camus (1956, p. 126, trad. nostra).↩
Bion (1983).↩
Freud (1907).↩
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Sullivan (1962).↩
Metzinger (2010).↩
Booth (1996; 1976).↩
Ibidem.↩
Barbieri (2007).↩
Demetrio (2008).↩
Demetrio (1996, pp. 12, 28).↩
Morin (2002, p. 115).↩
Pynchon (2005, pp. 130-131).↩
Barbieri (2014a; 2014b; 2014c).↩
Wallace (2008).↩
“Quando decidiamo di scrivere un libro, cioè di creare una storia dal nulla servendoci di parole e frasi, necessariamente estraiamo e portiamo alla luce un elemento tossico che fa parte del nucleo emotivo dell’essere umano. Lo scrittore se lo trova di fronte e, pur sapendo di correre un pericolo, deve maneggiarlo con abilità… perché senza l’intervento di quell’elemento tossico, un atto creativo dal significato autentico non è possibile – scusate l’esempio terra-terra, ma è un po’ come quando si dice che la parte più buona del pesce palla è quella più vicina al veleno” (Murakami, 2007, p. 83).↩
Barbieri (2014a).↩
Barbieri, Bennati, Capretto, Ghinelli, Vecchi (2016).↩