Il lavoro di Cesare Pietroiusti è, essenzialmente, una riflessione sulle relazioni, siano esse tra persone, tra esterno e interno di una stanza, di un museo o della mente. Pietroiusti fonda la sua ricerca proprio nel confronto, teso a svelare legami paradossali e inaspettati: le sue opere si aggregano secondo uno sviluppo reticolare, ogni insieme rimane aperto, pronto a intessere nuove maglie di significato; azioni e opere del passato sono assorbite e rielaborate nei lavori successivi. Nell’intervista che qui si riporta, il discorso si coagula intorno agli argomenti secondo una logica circolare più che lineare, e affronta alcuni nodi fondamentali del lavoro dell’artista: la relazione con lo spazio e con il tempo nelle performance e nelle esposizioni, la condivisione dell’autorialità nei Pensieri non funzionali (organismo pulsante nel quale rientrano tutte le sue opere), la pratica laboratoriale come pratica performativa e il valore conoscitivo dell’esperienza artistica. Nel momento in cui l’artista, “perfetto dilettante” che “si attribuisce la potenzialità di fare tutto, attraversando (o usando in modo non funzionale) le diverse discipline”,1 oltrepassa programmaticamente ogni confine, il dialogo non può che basarsi su stratificazioni di storie, dichiarazioni di poetica, sconfinamenti.
Qualche mese dopo questa conversazione si è tenuta la grande mostra Un certo numero di cose / A certain number of things,2 prima retrospettiva dedicata all’artista da un’istituzione museale. In questa occasione era chiaro il procedimento di risignificazione del passato, costante nel lavoro di Pietroiusti: per ogni anno della sua vita era esposto un oggetto, un gruppo di oggetti o un’opera. Al centro della Sala delle Ciminiere campeggiava l’oggetto relativo al 2019: una recinzione in cui si è svolto un laboratorio con studenti e giovani artisti, a partire dalle opere esposte. Gli esiti del confronto confluiranno in una futura mostra al Museo Madre di Napoli. Coesistevano nel tempo dell’esposizione oltre che nel suo spazio due funzioni fondamentali del lavoro di Pietroiusti (e del museo): quella di conservare il passato e quella di essere laboratorio operativo di un presente in fieri.
Leggere questo dialogo a posteriori porta alla luce alcune premesse della mostra; tenendo conto della contemporaneità di passato, presente e futuro, a partire da una domanda fondamentale: “Come relazionarsi con la produzione di un’opera che non è unica, che non è acquistabile e che non riuscirà mai a rimanere uguale a se stessa anche se esposta all’interno di un museo?”.3
Sara Molho: Inizio questo excursus attraverso alcune tue opere a partire dai Pensieri non funzionali.4 Grande contenitore di opere e insieme opera che ha assunto varie forme nel corso del tempo, da traccia sonora a libretto a sito internet, sfugge a ogni definizione certa. Le circa cento frasi che ne fanno parte, oltre a essere base di moltissime tue opere, possono essere messe in atto da chiunque. Quando e come nascono?
Cesare Pietroiusti: Avevo in mente questi pensieri dai primissimi anni di Jartrakor, in cui segnavo sui quaderni queste idee. A un certo punto mi sono reso conto che avevano delle loro caratteristiche psicologiche. Il rapporto tra l’idea vaga e il progetto di un’azione, le istruzioni per un’azione. I primi appunti risalgono alla prima mostra che feci, nel 1978, ma li ho chiamati Pensieri non funzionali per la prima volta nel 1996 o 1997, e li ho pubblicati come tali nel 1997, prima li chiamavo Pensieri parassiti. Nel 1996 ho partecipato a una mostra che si chiamava NowHere5 con una performance, e la curatrice volle esporre anche alcune di queste frasi, su tavolette colorate: si chiamavano Proposals. Questi pensieri sono passati sotto tre o quattro nomi, ma dal momento in cui sono stati pubblicati come Pensieri non funzionali, hanno mantenuto questo nome.
S.M. – Oltre a essere delle istruzioni, sono un meccanismo in cui ogni frase fa parte di un insieme coerente. Si tratta di un produttore di opere d’arte potenzialmente infinito, un dispositivo perfetto. Si può dire che si tratta di una grande opera in potenza? Già nella pubblicazione del 1997, tra l’altro, ci sono delle pagine dedicate ai Pensieri non funzionali altrui.
C.P. – Possono anche essere letti così. Un altro modo in cui li chiamavo era Idee superflue, ho fatto delle azioni che si chiamavano Non gettare via i pensieri superflui. L’idea, dato che si cominciava a utilizzare internet a metà degli anni Novanta, era quella di fare un grande sito in cui c’erano tutte queste idee che chiunque avrebbe potuto prendere e realizzarci un’opera che sarebbe stata coautoriale (mia e dell’autore della sua realizzazione), però era anche un serbatoio in cui le persone avrebbero potuto mettere altre idee loro. Sono riuscito a realizzare il sito solo nel 2008, aggiornandolo successivamente. Le ho presentate come installazione audio in varie occasioni, nel 1995 a Castel San Pietro6 credo che fosse la prima volta. Spesso ho mandato ai curatori delle mostre l’intero set di istruzioni, chiedendo loro di scegliere il lavoro e realizzarlo. Questa è la versione che utilizzai per Democracy! nel 2000,7 che credo sia una delle mie mostre migliori, in cui ho solo mandato le istruzioni.
S.M. – A questo proposito si pone un altro problema: ciò che nasce da queste indicazioni rimane una tua opera, tu non rifiuti una posizione autoriale, per quanto lavori criticamente sulla figura dell’autore.
C.P. – Io penso che le idee appartengano a tutti, siano un bene condiviso, non per motivi ideologici ma perché condividendole si moltiplicano, quindi conviene a tutti. Noi siamo obnubilati dall’idea della competizione, del mercato, quindi non riusciamo a entrare spesso in questa dimensione di condivisione. Non rifiuto l’autorialità però appunto penso che la cosa più interessante sia condividere, se qualcuno prende un mio pensiero non funzionale, lo realizza, ci fa una meravigliosa opera, è chiaro che è in parte sua e in parte mia. Non mi interessa che mi venga riconosciuta per un fatto economico, ma per un fatto di condivisione. Se una tua idea ti è riconosciuta, resti dentro al discorso, se sei escluso dal discorso non hai più diritto di parola. Quindi accetto la nozione di autorialità in quanto desidero essere parte del discorso, per il contributo che posso dare, e per ciò che il discorso può dare a me.
S.M. – Se non la rifiuti, diciamo che giochi con la struttura che presuppone l’esistenza di un autore. Questo tipo di spostamento rispetto al punto di vista comune è una caratteristica fondamentale del tuo lavoro.
C.P. – L’artista non ha un punto di vista, ha soltanto la libertà di spostare il punto di vista, e questo significa che date certe strutture, quelle economiche, quelle sociali, quelle dell’autorialità, quelle della storia dell’arte, quelle delle interpretazioni filosofiche, anche della morale, del bene e del male, l’artista si prende la libertà di giocare con questo insieme di regole, di leggi, di norme, di usanze, di opinioni. Prendersi la libertà di giocare significa non che ti dirà cosa devi fare, per stare bene nella vita, ma che ti dirà che puoi farlo. Come giocare lo decidi tu, io ti posso far vedere che si può fare. Personalmente cerco di agire là dove le regole mi sembrano un po’ più soffocanti. Ho lavorato per esempio sul denaro,8 oppure sull’idea di essere utile agli altri.9 Ci sono poi dei fatti contraddittori dentro di noi, io lavoro su quello, sulle cose che creano dei conflitti interni. Non risolvo il conflitto però mi prendo il lusso di far diventare il mio lavoro quel flusso di energie, che normalmente una persona troverebbe come un vicolo cieco. Proprio il non riuscire a venirne fuori è una fonte di energia. Bisogna mantenere il valore del polo negativo, la metafora elettrica è interessante: non c’è elettricità se non c’è un polo negativo oltre a quello positivo, è così anche nel nostro giocare la vita. Se noi interpretiamo la morale come un dovere stare fermi sul polo positivo, ci togliamo un sacco di possibilità, di flussi energetici, invece di vivere cerchiamo di vivere il meno possibile, e questo è l’errore a cui ci portano la politica, le morali, le religioni, un generalizzato senso di necessità di ordine. Lo capisco da un punto di vista pratico, ma capisco di più che ognuno di noi deve mantenere un suo spazio di apertura e di libertà.
S.M. – Alcuni testi usciti su “Opera Viva” in occasione di Sensibile comune. Le opere vive, mostra che si è tenuta alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma nel 2017 e che hai curato insieme a Ilaria Bussoni e Nicolas Martino, hanno un linguaggio impegnato che richiama la temperie degli anni Settanta. Mi viene in mente a questo proposito la rivendicazione femminista di una creatività estranea al sistema dell’arte istituzionale portata avanti da Carla Lonzi e da Rivolta femminile.
C.P. – Ho letto qualcosa dei testi di Carla Lonzi abbastanza tardi, inizialmente c’è stata la ricezione della critica femminista, non tanto quella lonziana ma opinioni informate anche da lei. Il punto fondamentale, che a me personalmente ha cambiato la vita, è stato capire che negli anni Settanta c’era questa grande questione dell’ortodossia rivoluzionaria, ovvero del ritenere che tutti i problemi andassero ricondotti a uno schema interpretativo fondamentalmente basato sul conflitto di classe. Questo schema interpretativo ovviamente ha un valore euristico, nessuno lo nega. Ma è evidente che ci siano problemi anche su altri piani, per esempio il patriarcato e la violenza che si esercita, autoritaria, in un contesto come quello familiare. In arte questo spostamento di attenzione le avanguardie lo avevano ovviamente capito, con una lucidità che io negli anni Settanta certamente non avevo, però lo intuivo. Intuivo che la liberazione non è solo una questione di contenuto, ma è anche questione di attitudini, di forme, di comportamento, di modalità di espressione linguistica, perché se faccio un discorso liberatorio ma te lo urlo in un orecchio, con violenza, sto confutando innanzitutto quello che dico. Allora questo è il problema dell’arte: se tu fai una mostra su un tema sociale, politico, e poi metti i quadri sulle pareti in modo autoritario, in alto, metti chi vede in una posizione di piccolo osservatore che sta sotto; c’è qualche cosa che non quadra. Si tratta del fatto del linguaggio, l’esercizio del potere attraverso la lingua. Io ho avuto accesso a questo discorso, prima che attraverso la riflessione sull’avanguardia, da quella sulla critica femminista e sull’ortodossia ideologica del conflitto di classe. Ha a che fare anche con l’idea che l’opera d’arte per essere grande, e comunque densa, deve contenere in sé una osservazione critica del proprio linguaggio. Questa è una cosa che se leggi Lonzi è molto chiara a un certo punto. Se c’è una cosa che ho imparato in negativo degli artisti di quella generazione è proprio il fatto di quanto sia inutile, controproducente, uno spreco di fatica, di energia, la competizione e la volontà di primeggiare sugli altri, l’idea che il tuo quadro debba essere messo nella posizione più felice della parete, l’idea di dovere per forza dimostrare che quella cosa lì l’hai fatta tu prima degli altri. Una fatica immensa per delle cose completamente inutili; Lonzi lo sapeva, Consagra forse no.
S.M. – Tu e Lonzi vi muovete in un territorio fortemente connotato dalla dicotomia tra coerenza e incoerenza: in lei vedevo una ricerca estenuante di una qualche coerenza morale e insieme tensioni laceranti.
C.P. – Tu parli di coerenza morale e capisco il senso in cui lo dici. Però la parola coerenza è un altro di quei termini che metterei in un circolo paradossale, perché cosa c’è di più coerente di tirare fuori la contraddizione, cioè l’incoerenza? Se è incoerenza la nostra esperienza quotidiana, allora capisci bene che sono coerente perché…
S.M. – Perché sono incoerente.
C.P. – E a me sembra che questa sia una grande lezione perché, a partire da queste forze che creano l’incoerenza, puoi scegliere di negare che esista la contraddizione, e cercare di essere rigidamente coerente. Oppure puoi metterti dentro al flusso, e cercare di conoscere e di capire, di esperire il fatto che questo flusso non è la felicità, è una sorta di conoscenza, è il tuo canale alla conoscenza, il tuo possibile approccio al sapere, e tra l’altro ognuno di noi è preparatissimo nel campo delle proprie contraddizioni, metterle da parte è uno spreco. Ho capito in che senso parli di coerenza, anche perché Lonzi è un esempio luminosissimo.
S.M. – Tornando a Sensibile comune, mi soffermerei sul modo di approcciarsi allo spazio del museo che quella breve mostra-evento indicava.
C.P. – Secondo me si è trattato di un tentativo di costruzione di una possibilità di esperienza del museo che cerca di conciliare la ricerca artistica con la filosofia, la politica e altre discipline teoriche, ma anche con l’osservazione di opere d’arte esposte e con l’esperienza di un evento, performativo o dialogico. Sensibile comune era nato dall’entusiasmo di avere conosciuto questi due giovani filosofi con una preparazione molto attenta alla ricerca artistica contemporanea, ed era il tentativo di offrire una nuova possibilità di esperienza del museo, dell’istituzione museale, un’esperienza che conciliasse il rapporto dell’opera con la mostra, l’evento, la conferenza, la performance. Riprende questa idea Macro Asilo, che propone la sfida di un museo senza mostre, fatto di eventi, in cui la posizione del visitatore non è più quella dell’osservatore distaccato ma è quella del partecipante. Quando la tua presenza all’interno di una situazione determina la situazione stessa, tu salti di livello di responsabilità, diventi parte di una cosa che sta accadendo. Si tratta di un esperimento sul tentativo di fare del museo un luogo di creazione di comunità. Sensibile comune è stato un tentativo riuscito, che ha avuto una sua temporaneità di soli nove giorni. Al suo interno ho proposto una mostra di opere rotte, danneggiate, e la direttrice della Galleria Nazionale di Arte Moderna ha accettato di tirare fuori queste opere dai depositi, credo sia stata un’esperienza molto forte, e si sono svelati dei paradossi che dovrebbero essere affrontati come tali, non essere sistematicamente rimossi. Davanti a opere irrecuperabili, che non possono essere restaurate, si rimane spesso bloccati e le opere rimangono nei depositi. Proviamo invece a immaginare cosa farne: si mette in discussione anche un’altra delle strutture, di cui si diceva prima, che è quella della conservazione dell’opera e di conseguenza del concetto di distruzione. Prendendo il lavoro di Pascali, La tela di Penelope, tentando di srotolarlo, come era nelle intenzioni dell’artista, si sbriciola. Siamo sicuri che una volta srotolato e sbriciolato sia più distrutto? Non è già distrutto ora? La materia non svanisce nel nulla: invece di un rotolo arrugginito, rimarrà una montagna di polvere. Però la polvere di metallo la posso raccogliere, se voglio proprio feticisticamente conservare il materiale. Quindi perché srotolarlo significherebbe necessariamente distruggerlo? Io avevo proposto di chiamare un grande regista, per esempio Herzog. Davanti a lui avremmo potuto srotolare l’originale del 1968 di Pino Pascali e vedere cosa sarebbe successo e che film ci avrebbe fatto. Quindi di nuovo la mia funzione è stata quella di giocare con dei paradigmi, paradigmi museali.
S.M. – Apro un altro interrogativo che riguarda alcuni temi ricorrenti nel tuo lavoro, anche se apparentemente rimasti in ombra: la creatività e la follia iniziatica, legata a Dioniso. Già a fine anni Settanta avevi scritto un saggio sulla follia e la devianza.10
C.P. – Io mi sono laureato nel 1979 in medicina con una tesi in psichiatria, e per qualche anno ho pensato che forse avrei fatto lo psichiatra nella vita. Quando era stato scritto quel testo ero in una fase di mezzo fra la psichiatria e l’arte. Il fatto che cercassi di associare alcune entità concettuali che nella psichiatria sono considerate patologiche, relative a un discorso clinico, a un comportamento potenzialmente artistico, era dovuto a un tentativo di liberare i concetti che avevo studiato e che mi interessavano dalla griglia nosografica, diagnostica, anche istituzionale della psichiatria. In quegli anni stavo cercando di recuperare in modo creativo questo patrimonio di conoscenze. In quel testo sostenevo che si potessero identificare due tipi di delirio, uno autoreferenziale che definivo “perdente”, centrato sulle problematiche del soggetto, e uno molto simile fenomenologicamente, però molto diverso sul piano della sua manifestazione esterna, un delirio che interveniva su meccanismi sociali, relazionali, politici, culturali, e identificavo questa seconda forma di delirio con l’arte. Facevo riferimento al Fedro, in cui Platone definisce diversi tipi di mania – questo non lo si dice solo nel Fedro. Parlavo della mania poetica, e del fatto che il poeta, l’artista, ispirato dal dio, raggiunge un grado di follia divina, non patologica. Quindi c’era questo tentativo di recuperare nelle manifestazioni della follia un senso artistico, separandolo dagli aspetti di sofferenza individuale, di chiusura. Con i ricoverati dell’ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà, facevo dei laboratori di disegno e percepivo dentro questi disegni degli aspetti molto interessanti, altri assolutamente banali, infantili, ingenui, prevedibili, ma alcuni proprio inventivi, folli, inattesi, imprevedibili.
S.M. – Hai posto in quel momento le basi di un argomento che hai portato avanti molto dopo, con le lezioni-performance su Dioniso e sulle Baccanti. E per portare avanti questa ricerca hai trovato una forma d’espressione ibrida, collettiva, che unisce insegnamento e performance.
C.P. – La passione per Dioniso trova le radici in Nietzsche, l’autore che mi ha formato dal punto di vista filosofico alla fine del liceo. Era un autore maledetto, per questo suo essere considerato, assurdamente, uno dei precursori del nazismo. In quegli anni cominciò il suo recupero, il primo a ristudiarlo fu Deleuze, con Foucault, poi sull’onda dei grandi nomi francesi hanno cominciato anche gli italiani. Così parlò Zarathustra è tra le cose che metterò nella mostra al MAMbo, perché ho ritrovato l’edizione degli Oscar Mondadori, con i miei appunti dell’epoca. Credo che fosse il 1972 o il 1973, l’anno della maturità. Nietzsche parla di Dioniso come di una figura in cui si identifica, simile ma per certi versi opposta a Zarathustra. Senza nessun approfondimento particolare c’era questo fascino per Dioniso legato ai testi nietzschiani.
Molti anni dopo nasce il “metodo Seri”; nel 2009 insegnavo all’università e Jacopo Seri era uno studente che mi propose un suo progetto: fare una lezione dedicata allo specifico tema del rizoma in Mille piani di Deleuze e Guattari, in cui si descrive “l’ubriachezza come un’irruzione della pianta in noi”.11 Mi propose di fare una lezione sul rizoma in cui ad ogni concetto espresso tutti avrebbero bevuto un sorso di vino. Non avevo mai fatto lezione ubriacandomi, e ho avuto la percezione di una performatività molto forte, molto incarnata. Quando sei sul limite dell’ubriachezza, c’è un momento, (con il vino è piuttosto lungo) in cui hai una forma di lucidità nuova. Senti molto di più il corpo, hai delle sensazioni che irrompono e interferiscono con la lucidità del pensiero. Avevo la sensazione di insegnare non solamente con la parola ma anche con le mani, le gambe, i piedi, con tutto il corpo.
Nel 2015, quando è nata la fondazione Lac o Le Mon in Puglia, ho avuto la sensazione fortissima che il sapere potesse essere veicolato non soltanto attraverso la mente, i concetti, ma anche attraverso la terra, la casa, il luogo, l’acqua, le cose fisiche. Facendo un laboratorio in un contesto come quello della fondazione, c’è un valore aggiunto che è proprio tutta questa materialità, sensorialità, approfondimento delle cose che pensi anche attraverso il luogo in cui cammini, il profumo che senti, tutta una serie di esperienze che lo rendono diverso dall’insegnamento accademico. Il sapere veicolato all’interno di un’aula universitaria non tiene conto dell’aula, è separato. Ma l’apprendimento, oltre a dipendere dal gruppo, è anche site-specific, quindi se stai facendo un seminario su qualsiasi cosa, il fatto che tu lo faccia in un determinato posto rende quell’esperienza diversa. È cominciata una riflessione sulla terra, sulle piante, appunto sulle cose “naturali”, per quanto la natura sia un concetto molto scivoloso. Appena è apparsa una riflessione su Dioniso, ho pensato potesse essere la nostra religione, un dio a cui fare rifermento, perché Dioniso permea questa possibilità di trovare senso nella terra, e mi è tornato in mente Nietzsche. Quindi la sua riscoperta è nata non come ebbrezza alcolica, ma come divinità che invece di riferirsi all’aldilà permea il qua, assolutamente immanente. Unire il metodo Seri a questa riflessione è stato immediato. Jacopo Seri è l’ideatore del metodo, i docenti performer siamo Andrea Lanini e il sottoscritto. Andrea si occupa di tutta la parte iconografica e storico artistica, Dioniso da dio senza forma antropomorfa a un certo punto con Pericle deve essere regolarizzato, entra nel pantheon olimpico, non era dio olimpico, era un dio ctonio, primitivo, vegetale in un certo senso.
S.M. – Credo che questo discorso sulla contingenza si leghi a un altro tema apparentemente laterale della tua ricerca, quello dell’epicureismo, del piacere e della morte. Penso innanzitutto al testo e al video in cui parli del piacere dal punto di vista di un purè di fave.12
C.P. – Epicuro mi ha sempre affascinato moltissimo, soprattutto tramite Lucrezio, il De rerum natura, la sua visione immanente, materialista, contro la religione come costruzione di controllo e di punizione, e come tentativo di liberarsi dalla religione. La riflessione sulla morte e sul piacere, nel testo e nel video a cui fai riferimento, è quella di non immaginare che possa esistere un piacere oltre la vita, che è la vita stessa il piacere, quindi è inutile pensare che ce ne siano altri dopo. Questa è una riflessione che ha guidato anche la Festa dei vivi (che riflettono sulla morte), quindi del ripensamento della festa del due novembre, una festa che celebra la vita, proprio perché esiste la morte. Solo perché finisce può essere connotata dall’esperienza del piacere. L’idea di riattivare la festa del due novembre ce l’ho da un sacco di tempo, però l’opportunità è arrivata nel 2010 e abbiamo fatto la prima edizione, e ogni anno la rinnoviamo.
S.M. –Ricollegandomi alla questione della conoscenza site-specific, mi è venuta in mente una frase, l’hai citata anche tu, di Libera dimensione di Piero Manzoni, con cui aprirei un interrogativo proprio sulla conoscenza: “Non c’è nulla da capire: c’è solo da essere, c’è solo da vivere”. A tuo parere esiste un’ambivalenza tra la conoscenza come strumento di potere o appropriazione, e la conoscenza come esperienza condivisa? Credi sia prerogativa dell’artista un approccio esperienziale alla conoscenza?
C.P. – Credo che una parte di appropriazione ci sia sempre. La memoria che noi costruiamo è basata su regole che abbiamo appreso, su una griglia che ci consente di collocare i concetti, per esempio accanto ai nomi dei loro autori; qualche forma di appropriazione è nella struttura stessa dei circuiti neurali. D’altra parte credo che le idee siano una materia che si arricchisce nello scambio e, se si pensa che esse possano soggiacere a forme di esclusività si va contro la natura stessa della conoscenza. Per quanto riguarda l’esperienza, il mettere alla prova le idee rispetto alla propria vita, un po’ lo facciamo tutti, però gli artisti ne fanno un lavoro. Il fatto di poter mettere alla prova le cose che leggi, le cose che pensi, le cose che ti capitano, metterle alla prova su di te, sul tuo essere corporeo, sui tuoi gesti, e far diventare questa “prova” il tuo lavoro, è prerogativa degli artisti.
A proposito della conoscenza dell’artista, Sergio Lombardo mi ha sempre detto: “Io ti ho iniziato, tu potrai a tua volta iniziare altri, questa iniziazione è un segreto che io ti affido”. Questo segreto sta nella conoscenza che si acquisisce mettendo alla prova i sensi, il corpo, le relazioni, con le idee. C’è un livello di conoscenza “reale” che può essere raggiunto oltre la rappresentazione. Ne La tempesta di Giorgione, per esempio, la tempesta è lontana, forse a uno o due chilometri, ma Giorgione sapeva che era a venti centimetri da ciò che appare in primo piano. Quel quadro gioca in maniera stupefacente con la prospettiva del temporale – e mi sembra ovvio che c’è anche un gioco di parole. Si sta parlando apparentemente di una tempesta, ma in realtà il tema è quella dell’artista che sa bene che la prospettiva è un’illusione spaziale, e qui crea anche un’illusione sul tempo, perché tu non sai se quella tempesta sta arrivando o è già andata via, se il percorso di questo “temporale” è nel prima o nel dopo. È un quadro che da sempre è considerato misterioso. Ebbene il suo segreto è la posizione dell’artista, che mette alla prova il proprio corpo (e, per estensione anche la propria mente) rispetto alla rappresentazione. Il sapere può essere ritenuto una cosa astratta, ma è il “mettersi alla prova”, e il mettersi nella posizione dell’altro, che fa l’esperienza, conoscenza incorporata.
S.M. – A proposito di questa conoscenza incorporata, mi viene in mente Malevic, che in uno dei suoi scritti dice proprio che “in arte c’è bisogno di verità, non di sincerità”. E dalla “prospettiva” opposta alla tua penso a Veronese a villa Barbaro, in cui il cortocircuito tra passato e presente è molto forte: le figure affrescate ci guardano da cinquecento anni e insieme percepiamo la presenza dell’artista al nostro posto.
C.P. – Mi viene in mente Tall Ship di Gary Hill che vidi a Documenta del 1992. Era una lunga stanza buia, con tante videoproiezioni, dietro enormi schermi neri. Entrando vedevi delle proiezioni molto piccole, fermandoti a guardare la proiezione si ingrandiva, e vedevi una persona che da seduta si alzava e veniva verso di te. Rimanendo abbastanza tempo, questa persona continuava a venire verso di te, si ingrandiva fino a diventare a misura d’uomo, e finché tu stavi là lei ti guardava. C’erano dei sensori che facevano sì che se tu rimanevi, la persona veniva verso di te e ti si fermava davanti, ma se ti fossi girato e allontanato quella sarebbe tornata a sedersi, piccola piccola, sulla sua seggiolina. Il processo era lento, dovevi provarci, tanto è vero che inizialmente non avevo capito, poi ho letto sulla didascalia “interactive video”, sono rientrato nella stanza e sono entrato nel gioco. Quel vederti era anche vedere quanto sei disposto a investire del tuo tempo, della tua energia, della tua curiosità. Tutti modi di mettersi alla prova. L’artista, qui, invece di squadernare l’opera (per fartela “capire”) te la centellina (per fartene fare esperienza). Ho sempre sognato di fare un’opera che appariva soltanto quando l’osservatore la guardava, non ci sono mai riuscito,13 Gary Hill secondo me ci è riuscito. Tall Ship più la guardi e più appare. Ricordo che nessun altro, di quelli che erano entrati con me, si era fermato abbastanza... L’artista intelligente mette in discussione, e mette dentro l’opera la questione del linguaggio che usa e dei criteri che tu stai usando per capire, interpretare, fare esperienza.
S.M. – Alcune tue performance affrontano l’esperienza conoscitiva in senso stretto: mi riferisco alla “serie” di opere in cui passi al vaglio tutti gli oggetti all’interno di un ambiente apparentemente vuoto. Affronti così la conoscenza di involucri ai quali di solito non si presta attenzione. Nella performance Tutto quello che trovo, che hai fatto a Base a Firenze nel 1999, per due giornate hai elencato tutti gli oggetti contenuti in una stanza. Nella prima eri bendato e con le orecchie tappate, e potevi essere visto e sentito dal pubblico fuori dallo spazio espositivo, mentre nella seconda non eri bendato, ed elencavi gli oggetti che trovati nello spazio espositivo, vuoto. Come si relazionano il primo momento della performance, in cui sei bendato ed elenchi quello che pensi, e il secondo, in cui invece descrivi ciò che trovi nella stanza?
C.P. – Quel lavoro nasce da un altro lavoro che era nella mia prima mostra a Jartrakor, nel 1978, Materia identica. Si trattava semplicemente di una frase scritta su un foglio di carta: “Materia identica. Tutti gli oggetti contenuti in questa stanza”. L’intuizione di quel lavoro è che tutti gli oggetti contenuti in una stanza vuota, oppure apparentemente vuota, potrebbero essere descritti, potrebbe esserne fatto l’elenco, potrebbero essere reperiti con attenzione, uno dopo l’altro. Questo può diventare una vera e propria performance, un’azione da fare dentro una stanza in cui si descrive tutto quello che si trova. Quindi Tutto quello che trovo nasce da Materia identica. Siccome io spesso faccio questo paragone tra la stanza fisica e la stanza mentale, è chiaro che “tutto quello che trovo” come lo applichi a una stanza lo puoi applicare al tuo cervello, al tuo pensiero, ovvero allargarlo a tutto ciò che riguarda quello che uno percepisce a livello del pensiero, o dell’immagine mentale. Quindi la percezione del caldo e del freddo, del dolore, della pressione, ricordi di cose che uno ha visto o sentito, tutto quello che riguarda la percezione della memoria ivi inclusi pensieri, ragionamenti, appunto idee in senso lato. La performance fatta a Base nel 1999 è costituita da due performance distinte ma collegate ovviamente da questa idea. Nella prima ero bendato e con le orecchie tappate per potermi concentrare più possibile sul flusso dei pensieri e cercare di descrivere tutto quello che sentivo apparire, diciamo così, nel percepibile, nella possibilità di percezione di un corpo che sta seduto lì. Ero chiuso nella stanza e da fuori mi si poteva vedere attraverso la vetrina di Base sulla strada, e si poteva sentire tutto quello che dicevo con degli altoparlanti, avevo un microfono. Per cinque ore descrivevo tutto quello che riuscivo, ciò che mi veniva in mente, dal freddo alla pressione sulla sedia fino ai sogni fatti. Due settimane dopo, nella seconda performance, la galleria era chiusa, c’era anche la saracinesca abbassata, quindi non mi si poteva vedere da fuori, ma solo sentire, e si sentiva la mia voce che descriveva tutto quello che trovavo nella stanza vuota. Avevo un microfono collegato con le casse fuori e stavo a descrivere la ragnatela, il moscerino morto, tutto, il grumo di pittura, il muro stesso, le macchie, insomma tutto quello che potevo percepire.
S.M. – La prima volta tu non vedevi ma gli altri ti potevano vedere, e la seconda volta nessuno ti poteva vedere ma tu vedevi.
C.P. – Si trattava di due strategie sulla concentrazione. Nel primo caso ero bendato e con le orecchie tappate perché così ero concentrato su me stesso, e a quel punto che la saracinesca fosse su o giù cambiava poco. Nella seconda occasione se ci fossero state persone fuori, siccome io non ero bendato e dovevo vedere chiaramente, avrebbero creato una distrazione, quindi ho pensato che fosse meglio abbassarla. È una performance che si può fare anche con la saracinesca alzata, tanto è vero che in un’altra occasione, a Lubiana nel 2004, nel festival delle Micro Performance, che mi sono inventato io, la performance era fatta da me e da un’altra persona in una stanza vuota, sempre con il microfono, però in quel caso le persone da fuori potevano vedere. Hai ragione anche a dire che nella costruzione del dittico c’è una correlazione.
S.M. – Intendevi mettere in atto un’azione di svelamento?
C.P. – Più che di svelamento c’è la creazione di una simmetria. Come hai detto tu: nella prima ti vedono ma tu non vedi nella seconda non ti vedono ma tu vedi. Quindi è chiaro che c’è una conduzione di queste logiche che gli artisti spesso mettono, sono tracce un po’ esoteriche.
S.M. – Nella performance Quello che trovo, quello che penso,14 che inserirei nello stesso filone di opere, fai alcune considerazioni sulla “temporalizzazione dei rapporti” e sulla scansione del tempo attraverso la descrizione di uno spazio; fai poi un discorso sullo spazio del museo e sulle possibilità di relazione e di produzione di senso in esso. In Georges Perec, scrittore che citi spesso,15 il primo spazio di Specie di spazi è quello della pagina e lo spazio ha sempre a che fare con il nominare lo spazio. Un ragionamento sulla mappatura dello spazio attraverso il linguaggio è presente anche nelle Tavole di accertamento di Manzoni, altro tuo punto di riferimento. Nel tuo lavoro la descrizione dello spazio è affidata alla tua voce, quindi alla parola, ed è strettamente legata alla durata, spesso al limite della sopportazione, delle performance.
C.P. – La durata è un modo per testare, mettere alla prova il corpo, e quindi mettersi alla prova tout court, se ti metti alla prova fisicamente sicuramente sei dentro la cosa. In alcuni casi, come per esempio la performance delle canzoni fasciste, Pensiero unico, del 2003, la durata è legata al subentrare della stanchezza, che mette in questione la retorica della bellezza, della giovinezza, il contenuto della canzone e i valori che apparentemente essa (e tu, cantando) sta (stai) celebrando.
S.M. – A proposito della durata nel tuo lavoro, penso anche a Slow food (2005), in cui mangi un pezzo di pizza molto lentamente, per delle ore, in cui l’idea di ingurgitare diventa nauseabonda.
C.P. – Certo, lì c’è anche un cambiare di segno l’idea dell’accumulo, del mangiare, metafora dell’accumulare, e di questo rallentare estremo come una forma di visione sotto un profilo esperienziale diverso ciò che introietti.
Lo spazio, per Perec che è uno scrittore, è quello della pagina bianca. Per me credo sia quello della mente, perché vengo da studi di psicologia, per cui la mente è questo bizzarro contenitore che diventa contenuto di se stesso, si attorciglia, espandendosi e concentrandosi, tra l’interno e l’esterno. Questo tema è presente in tutta la mia ricerca della seconda metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, sullo spazio fisico della stanza. È chiaro che anche lo spazio fisico della stanza è uno spazio primordiale dell’esperienza infantile, per esempio. Però mi sembra immediato il parallelo con il paradosso del pensiero come stanza, con un dentro e una possibilità di immaginare il fuori.
S.M. – Esiste una dinamica simile per il linguaggio nel tuo lavoro?
C.P. – Certo, l’ho capito dopo, leggendo Lacan. Prima pensavo più alla psiche e al pensiero come sistema, ai paradossi come giochi fra diversi livelli mentali. Diciamo che ho capito prima Watzlawick e Bateson. La dimensione “esterna” (o inconscia, e quindi inappropriabile) del linguaggio di cui parla Lacan, l’ho capita – se si può dire così – dopo. Quando tu porti questo discorso nello spazio dell’arte, diventa una “critica istituzionale”; cominci a vedere il luogo fisico del museo e della galleria come un contenitore (che è fisico tanto quanto sociale) dal quale pensi di poter uscire. Quindi la riflessione sullo spazio, la “spazializzazione” del problema, è proprio la sottolineatura di questo rapporto tra contenitore e contenuto, elemento di una classe che diventa classe di altri elementi, e tutti i paradossi legati al rapporto fra livelli e meta-livelli concettuali.
Rispetto al tempo, invece, possiamo mettere in discussione l’assunto tradizionale secondo cui la mostra, nel momento in cui finisci l’allestimento e la inauguri, deve rimanere identica. Oreste alla Biennale era un’installazione fatta di persone, e quindi cambiava ogni giorno. Macro Asilo è un museo in cui non ci sono mostre, invece “succedono” cose e, ogni volta che vai vedi cose diverse, e quindi molte, inevitabilmente, le perdi. Una (non)mostra che cambia, invece di utilizzare lo spazio dell’esposizione usa la sua durata. Anche l’esperienza del laboratorio, rispetto ad altre modalità pedagogiche, è caratterizzata da un tempo che si può estendere oltre i limiti prefissati. La lezione universitaria difficilmente si estende oltre i limiti dell’orario, il laboratorio invece fra le sue leggi ha anche quella di un’estensione un po’ indefinita.
S.M. – In Disponibilità della cosa (con Stefano Arienti, 2008-2012) è il tempo dell’opera a essere sovvertito: mentre l’opera è in costruzione è anche in esposizione, quando l’opera è finita muore, viene disgregata.
C.P. – Sul rapporto tra presenza dell’opera e tempo dell’opera si possono fare vari esperimenti: l’opera che prometti di fare sette anni dopo, l’opera che appare solo quando l’artista muore…16 Prendiamo il film di Chris Marker La jetée; dopo la guerra atomica, una colonia umana che vive sottoterra trova il sistema di mandare qualcuno in un altro tempo. La persona deve avere un ricordo molto vivido, si trova la persona adatta e questa viaggia nel tempo, fino a rivedere se stesso morire (ucciso, ovviamente, dagli agenti che volevano impedirgli di impedire la catastrofe). Sono convinto che Chris Marker, quando ha fatto questo film (1964, in piena Nouvelle Vague), si era messo in testa di fare un film come l’avrebbe fatto lui stesso trent’anni dopo. Soggiogato dal dilemma di questa im-possibilità, ha fatto un film stupendo proprio sul viaggio nel tempo. L’idea geniale di questo film è stata scatenata da quella di voler fare un film del/nel futuro. Ecco, possiamo mettere nell’opera la tematizzazione della temporalità dell’opera stessa, l’opera che accadrà, che farò, che avrei voluto fare, tutte le possibili varianti dell’adesso, del qui-e-ora.
Gennaio 2019 / Aprile 2020
Bibliografia
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Modena E. (2011). “Preso un certo ambiente, vai a vedere cosa c’è dall’altra parte dei muri perimetrali”. Parole e azioni di Cesare Pietroiusti sui muri. In “Ricerche di S/Confine”, n.1, vol. II, pp. 126-140.
Pietroiusti C. (1979). L’oracolo di Delfi e il messaggio delirante. In “Rivista di Psicologia dell’Arte”, I, n. 1, pp. 61-67.
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Pietroiusti (2008, pp. 31-32).↩︎
Cfr. Balbi, Samorì (2019).↩︎
De Vico Fallani (2009, p. 35).↩︎
Cfr. Pietroiusti (1997).↩︎
Cfr. Bauer, Blazwick, Cottingham (1996).↩︎
Cfr. Colasanti Canovi (1995).↩︎
AA. VV. (2000).↩︎
Per quanto riguarda Pietroiusti e il denaro cfr. Di Nardo, Pinto (2007, pp. 44-45); AA. VV. (2011, pp. 293-295).↩︎
Si veda per esempio la mostra In che cosa posso esserti utile? tenutasi presso l’Associazione Culturale Primo Piano di Roma, dal 28 ottobre al 5 dicembre 1994.↩︎
Pietroiusti (1979).↩︎
Deleuze, Guattari (2017, p. 47).↩︎
Pietroiusti (2012, pp. 94-97) [https://www.youtube.com/watch?v=Ef2m4wpcvCE].↩︎
Esiste la traccia di questo tentativo: “Create an object that only appears when you have observed it for a while”, in Pietroiusti (2018, s.n.).↩︎
Presso il MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma, 27-28 maggio 2010. L’artista, chiuso nel vano delle scale di servizio del museo durante i due giorni di inaugurazione, elenca tutto ciò che trova. All’interno dello spazio espositivo la sua presenza è avvertita tramite altoparlanti, che trasmettono tutto ciò che dice. La registrazione si ripete per tutta la durata dell’esposizione. Cfr. Chiodi, Dardi (2011, p. 178).↩︎
Si veda Modena (2011).↩︎
Esistono numerose opere di questo tipo, tra cui: Senza titolo (2008-2015), in Sentieri di leggerezza e promesse di piuma. Roma, RAM Radio Arte Mobile, dal 28 novembre 2008 al 31 gennaio 2009. Ogni disegno riporta la didascalia: “Questo disegno sarà realizzato, a semplice richiesta del suo possessore, fra il 28 ottobre e il 28 dicembre 2015. A tale scopo, l’artista si impegna fin d’ora ad usare materiale e metodo che, in tale data, saranno i migliori di cui potrà disporre”; Senza titolo, in Sull’invisibile. Avvistamenti, appuntamenti e dissolvimenti dell’arte contemporanea, a cura di F. Alfano Miglietti. Roma, Ciocca Arte contemporanea, dal 18 febbraio al 17 aprile 2010. Ogni disegno riporta la didascalia: “Questo disegno sarà completato dall’artista dopo la sua morte attraverso l’uso di mezzi di produzione sovrannaturali”.↩︎