PsicoArt – Rivista di arte e psicologia. Vol. 9 (2019)
ISSN 2038-6184

Psicastenia e privatopia in tre storie del disastro urbano di James G. Ballard

Riccardo GramantieriIndependent Researcher (Italy)

Riccardo Gramantieri, a graduate in engineering and clinical psychology, is interested in literature and psychoanalysis and is the author of essays such as William Burroughs: manuali di sopravvivenza, tecniche di guerriglia (2012); Post-11-settembre. Letteratura e trauma (2016); Fenomeno Ufo. Science and fiction (2018). His articles have appeared in “Psychotherapy and Human Sciences”, “Il Minotauro”, “Psychoanalysis & History”.

Pubblicato: 2019-12-19

Psychasthenia and privatopia in three urban disaster stories by James G. Ballard

Abstract

Nei romanzi L’isola di cemento, Il condominio e nel racconto La città definitiva, J. G. Ballard mette in forma narrativa quella che il filosofo Roger Caillois negli anni Trenta definì psicastenia, cioè una patologia nervosa definibile come la estremizzazione di un meccanismo di difesa attuato da chi non riesce a reagire agli stimoli ambientali. Il concetto, diverso da quello inteso in psichiatria, è stato ripreso alla fine del ventesimo secolo dai sociologi e dagli studiosi dei contesti urbani nel senso che vi dava Caillois. Scopo di questo articolo è mostrare come il passaggio dall’utopia delle urbanizzazioni regolari delle periferie (privatopia) della prima metà del ventesimo secolo, alla distopia dei contesti urbani psicastenici della seconda metà descritto da Ballard, provochi nei protagonisti ballardiani una spinta al mimetismo come definito da Caillois. Per i personaggi e gli ambienti inseriti nelle storie analizzate vige la necessità di difendersi reciprocamente e non di aprirsi, come invece volevano di urbanisti utopici, producendo un progressivo annullamento dell’ordine ambientale e mentale un tempo auspicato.
In Concrete Island, High-rise and The ultimate city, J. G. Ballard puts in narrative form that nervous pathology called psychasthenia by the philosopher Roger Caillois in the 1930s. This abnormal state is an extremization of a defense mechanism activated by those who cannot react to environmental stimuli. This concept, different from that one used in psychiatry, was resumed at the end of the twentieth century by sociologists and scholars of urban contexts in the sense that Caillois used. The aim of this work is to show how the transition from the utopia of the regular urbanization of the peripheries (privatopia) of the first half of the twentieth century to the dystopia of the psychasthenic urban contexts of the second half described by Ballard, provoke a push for mimicry in Ballard’s protagonists as defined from Caillois. Characters and environments included in the stories analyzed need to defend each other and not to open up, instead used to be in utopian project. This action produces a progressive cancellation of the environmental and mental order once desired.

Keyword: James G. Ballard; psychasthenia; privatopia; Roger Callois; mimetism

1. Introduzione

L’affermazione di James Graham Ballard come scrittore avvenne nell’ambito dell’editoria di fantascienza a partire dagli anni Sessanta, per culminare una decina d’anni dopo con alcune opere mainstream. Quel periodo di tempo fu lo stesso in cui la componente sociale e relazionale del comportamento assunse un ruolo di primo piano per i ricercatori di diverse discipline. La psicologia venne valorizzata in quei decenni con studi che descrivevano il comportamento degli individui e dei gruppi nel loro ambiente in relazione alle patologie mentali che le stesse persone presentavano. Fu in quegli anni che si affermò l’antipsichiatria, che propugnava l’idea che fra le cause delle malattie mentali vi fossero le caratteristiche della società contemporanea, fra le quali vanno annoverate quelle ambientali.

Con i suoi romanzi Ballard ha descritto la società inglese come vittima di quelle patologie mentali che gli antipsichiatri le attribuivano. Queste descrizioni legavano assieme rappresentazioni di luoghi e di stati d’animo; legavano l’urban space all’inner space, per usare un termine caro alla fantascienza.1

La Urban Disaster Trilogy (Crash, L’isola di cemento, Il condominio), in particolare gli ultimi due romanzi, assieme al racconto La città definitiva, mettono in forma narrativa quella che il filosofo Roger Caillois negli anni Trenta definì psicastenia, cioè una patologia nervosa nata come estremizzazione di un meccanismo di difesa attuato da chi non riesce a reagire agli stimoli ambientali. Questa patologia, benché non abbia ricevuto alcun riconoscimento dalla psichiatria accademica, che con lo stesso termine intendeva altro, è stata ripresa alla fine del ventesimo secolo dai sociologi e dagli studiosi dei contesti urbani nel senso che vi dava Caillois.

Il passaggio dall’utopia delle urbanizzazioni regolari delle periferie (privatopia) della prima metà del ventesimo secolo, alla distopia dei contesti urbani psicastenici della seconda metà, è stato descritto magistralmente da Ballard in alcuni romanzi e racconti, e in particolare in parte della trilogia del disastro urbano ove viene descritta la mutazione della personalità umana in diversi contesti abitativi.

2. Utopia e distopia del contesto urbano

Uno dei modelli base della psicologia sociale è quello di James George Kelly. Lo psicologo afferma che “il funzionamento e l’umore delle persone e dei contesti sociali dovrebbero derivare dal fatto che persone e contesti sono interconnessi”.2 È quello che si definisce un modello ecologico. Kelly, e gli psicologi che in seguito svilupperanno questo e altri modelli (Dohrenwend, 1978; Bronfenbrenner, 1979), partono dal presupposto che nelle persone si sviluppi un adattamento ai contesti sociali che modifica le abitudini personali, e che contemporaneamente lo stesso ambiente venga modificato dagli abitanti, in un mutuo e reciproco adattamento. Siamo allora davanti ad uno scambievole mimetismo, per usare il termine caro a Caillois e che qui si vuole estendere a Ballard.

L’idea dell’adattamento non è nuova. L’ipotesi che un contesto metropolitano potesse essere fonte di benessere sociale, e dunque potesse modificare i comportamenti della comunità, nacque con gli utopisti inglesi e cercò di trovare un’attuazione nelle città-giardino (garden cities) del ventesimo secolo che, costituite da tante proprietà private organizzate, poi evolute in condominio, è stata definita da Evan McKenzie “privatopia”, cioè utopia della proprietà privata.

2.1 La privatopia

Il concetto di privatopia è legato alla creazione della garden city, la cui ideazione si deve all’opera di Ebenezer Howard, uno stenografo di tribunale inglese che, leggendo il romanzo utopico Guardando indietro (Looking Backward: 2000-1887, 1888)3 di Edward Bellamy, rimase colpito dalla possibilità di trasformare una nazione attraverso la pianificazione urbana. Nel pamphlet Garden Cities of Tomorrow (1902) egli cercò di applicare i concetti della costruzione cooperativa a Londra, progettando in maniera unitaria una città circolare col diametro di circa due chilometri, attraversata da sei boulevard con al centro un parco centrale (central park), a sua volta circondato da un edificio vetrato circolare con funzione di grande magazzino. La città si distribuiva lungo strade concentriche e lungo il perimetro esterno dovevano essere posizionati i servizi produttivi, mentre all’esterno della circonferenza si distribuivano cinquemila acri di terreno agricolo. La proprietà rimaneva della municipalità (Londra) e i residenti avrebbero pagato un affitto, che sarebbe stato reinvestito nella costruzione di servizi pubblici. I cittadini sarebbero stati di un ceto tale che la presenza della polizia sarebbe stata minima, e il governo sarebbe stato retto da una tecnocrazia divisa in tre settori: gestione pubblica, progettazione, servizi sociali.

Quest’idea trovò una sua parziale realizzazione nelle common-interest developments (CIDS) americane, agglomerati urbani di singole villette, o condomini, sviluppate da costruttori privati. Evan McKenzie ha chiamato questo “ibrido delle idee utopiche di Howard e del privatismo americano […] privatopia, termine che racchiude i due concetti”.4

Dal 1920 al 1929 vennero iniziate negli Stati Uniti più di sette milioni di case destinate alla classe media e ai lavoratori. Si crearono così veri e propri sobborghi che, nel dopoguerra, vennero ulteriormente pianificati in immensi quartieri periferici costituiti da case singole (single-family houses) circondate dal giardino. Nel 1961 venne istituita anche negli Stati Uniti la proprietà in condominio (condominium), che in Europa era già ampiamente diffusa. Il condominio raggruppò le single-family-houses per formare la suburbia, ma non presentò le caratteristiche utopiche e sociali che Howard immaginava. Oggi la proprietà privata ha preso il sopravvento sull’ideale città collettiva: “al posto dell’utopia di Howard c’è la privatopia, nella quale l’ideologia dominante è il privatismo; dove il diritto contrattuale è l’autorità suprema; dove i diritti di proprietà e i valori di proprietà sono al centro della vita della comunità; e dove l’omogeneità, l’esclusività e l’esclusione sono il fondamento dell’organizzazione sociale”.5 Il sociologo urbano Edward W. Soja fa anch’egli riferimento alla privatopia per indicare aree protette da confini fisici, restrittivi ed esclusivi, controllate ad esempio tramite telecamere o badge identificativi.6

La privatopia socio-urbana è fortemente ancorata al concetto di utopia. Dice Patricia García che è un topos che si differenzia dall’esterno e se ne protegge. Anche se sia l’utopia che la privatopia hanno la loro ragion d’essere nel diversificarsi dalla distopia, esse sono concetti non coincidenti. Le utopie sono generalmente luoghi senza riferimenti spaziali extratestuali e sono situate fuori dal tempo. Le privatopie, al contrario, sono ancorate in specifiche coordinate temporali e spaziali. Esse infatti generalmente coincidono con i quartieri residenziali suburbani costruiti nella seconda metà del ventesimo secolo. L’utopia è legata alla tradizione letteraria dell’esplorazione esotica e dei racconti di viaggio e dunque ha una tendenza verso l’esterno (la necessità di esplorare), la privatopia si impone con muri, barriere, telecamere e altre chiusure, e dunque ha un movimento verso l’interno,7 e quando ci sono muri e separazioni, il luogo ideale degrada. L’utopia di qualcuno è sempre la distopia di qualcun altro.8 L’utopia residenziale di Howard e la sua parziale realizzazione in privatopia del dopoguerra negli Stati Uniti, viene adattata al territorio britannico da Ballard e diviene utopia negativa, cioè distopia.

2.2 La psicastenia

Il termine psicastenia, deriva dal francese psychasthénie: psycho – mente, e asthénie – astenia cioè una sensazione di spossatezza. Il termine venne coniato dallo psichiatra francese Pierre Janet nel 1903 in L’obsession et la Psychastenie. Essa è

un disturbo dell’apprendimento del reale e dell’acquisizione della consapevolezza del presente. La struttura del sistema nervoso si articolerebbe in funzioni superiori e funzioni inferiori e il funzionamento della psiche sarebbe correlato alla armonicità dei rapporti fra le une e le altre. Le funzioni superiori avrebbero bisogno di un livello di energia più alto delle inferiori e dovrebbero produrre una più forte “tensione psicologica” per la loro esplicazione.

La psicoastenia appare, in questa ottica, come una forma di “depressione mentale” caratterizzata dall’abbassamento della “tensione psicologica”, quasi una diminuzione di energia di quelle funzioni superiori che permettono di percepire ed elaborare la realtà. L’abbassamento della “tensione psicologica” rappresenterebbe il nucleo fondamentale degli psicoastenici.9

Gli effetti della patologia sono sentimenti di incompiutezza, difficoltà nella percezione del Sé, abulia, amnesia e fantasticherie. Nei casi più gravi essa sfocia in quello che oggi si definisce disturbo ossessivo-compulsivo.

Un significato alternativo del termine psicastenia viene dall’intellettuale surrealista francese Roger Caillois il quale nell’articolo Mimetisme et psychastenie legendaire (1935) apparso sulla rivista surrealista Minotaure, cambiò significato al termine. Anch’egli lo identificò come una psicopatologia, ma più vicina alle psicosi che non alle nevrosi, come sembrava invece intenderlo Janet. Egli partì dalla definizione di mimetismo del biologo francese Alfred Giard (1888), in particolare dalla differenziazione fra mimetismo offensivo e difensivo. Gli animali innocui si mimetizzano quando, assumendo l’aspetto di altri animali temibili, sviano il nemico, ad esempio l’innocua farfalla Trochilium che assomiglia alla temibile Vespra Crabro, cioè il calabrone. È questa una forma di adattamento, una difesa esclusivamente visiva, che tuttavia Callois non reputa sempre efficiente e per questo motivo egli non la interpreta come un sistema difensivo, ma piuttosto come una disfunzione: la creatura (animale o persona), non si sentirebbe più al centro delle coordinate spaziali del suo spazio visivo, ma si penserebbe un punto come tanti altri punti geografici. Essa “non sa più cosa fare di se stessa”.10 Caillois chiama psicastenia questa difficoltà di distinguersi dall’ambiente.

Anch’egli fa riferimento agli studi di Pierre Janet ricordando che gli schizofrenici affermano di sapere dove si trovano ma non di percepirsi spazialmente. La psicastenia è dunque una sorta di “depersonalizzazione attraverso l’assimilazione dello spazio”.11 Assimilarsi all’ambiente significa diminuire il senso del Sé e la vitalità. Caillois fa l’esempio delle uova di Phasmatidae, che non solo sembrano semi, ma la loro struttura interna è proprio simile a quella di un seme. La psicastenia è dunque una mimetizzazione patologica, un disturbo del Sé: una sorta di auto-rinuncia per assimilazione dell’ambiente. Non a caso Caillois parla della schizofrenia. Caillois non è darwiniano: il mimetismo non ha funzione strategica (offensiva o difensiva); al contrario essa può sfavorire chi lo usa; essa non sarebbe altro che un desiderio di autodistruzione, un prodotto quindi dell’istinto di morte.12 Caillois costruisce “un’estetica della natura”13 e crea una sorta di mitologia degli insetti; questa sua mitologia è filtrata attraverso gli strumenti della psicopatologia. Caillois fa una sorta di “biologia comparata”14 fra umani e insetti (ad esempio descrive la mantide religiosa come una versione animale della femme fatale in La mante religieuse, 1934), rimarcando ancora una volta il concetto di mimetismo.

3. Le psicogeografie di J. G. Ballard

Il concetto di psicastenia è stato utilizzato da alcuni storici e teorici dell’urbanistica e della sociologia urbana. Autori come Soja,15 Olalquiaga e García intendono tale patologia come il fenomeno che porta la persona a perdersi, cioè a confondersi, a dissolversi nello spazio urbano. Secondo Soja la psicastenia è associata all’indefinitezza della distinzione tra il corpo, il Sé, la città; ugualmente Olalquiaga vede il fenomeno associato al contesto urbano; García la intende invece come l’impossibilità di una persona di distinguersi dall’ambiente fisico tanto che il corpo umano diviene lo spazio che occupa.

Ballard è l’autore che più di tutti ha descritto il fenomeno della psicastenia così come inteso da Caillois e poi dagli storici dell’urbanistica; in particolare alcuni testi della metà degli anni Settanta si possono identificare come il naturale sviluppo di un discorso utopico/distopico iniziato il decennio precedente. Riprendendo l’assonanza col termine dis-topia (cioè anti-utopia), potremmo proporre il termine dis-privatopia (cioè anti-privatopia). La dis-privatopia sarebbe provocata dalla psicastenia; e in un processo biunivoco, la psicastenia è stimolata dalla dissoluzione della privatopia.

Ballard a partire dagli anni Sessanta iniziò un discorso critico sull’utopia. Fin dai suoi romanzi catastrofici, egli scelse deliberatamente la forma della distopia (in quel caso una distopia “ambientale”) e la elesse a moderna forma di utopia: i protagonisti di quei romanzi, soprattutto Robert Kerans del romanzo Deserto d’acqua (The Drowned World, 1962) e Edward Sanders di Foresta di cristallo (The Crystal World, 1966), sono irrimediabilmente attratti dalla catastrofe (e cioè dalla distopia); loro desiderano vivere nell’ambiente reso invivibile (agli altri) dalla catastrofe. La pulsione di morte freudiana ha trionfato: la distopia viene eletta ad utopia.

Questa auspicata distopia ambientale si fa presto distopia urbana in una serie di storie che Ballard pubblica nel giro di tre anni consecutivi a metà degli anni Settanta, e che sono particolarmente significative per il discorso che qui vuole farsi: L’isola di cemento (Concrete Island, 1974), Il condominio (High-Rise, 1975) e La città definitiva (The ultimate city, 1976). I primi due compongono parte di quella che la critica francese ha definito, completata da Crash, la trilogia del cemento (La trilogie de béton), e che Peter Briggs ha denominato la trilogia del disastro urbano (Urban Disaster Trilogy) vedendo i tre testi come “romanzi catastrofici nello stesso senso in cui lo era la prima quadrilogia”,16 ma qui la catastrofe è provocata dall’uomo. Ballard compie inoltre un progressivo cambio di prospettiva. L’ambiente non è più planetario, ma si restringe alla sola metropoli: al ristretto triangolo di cemento e sterpaglie dell’isola spartitraffico, all’edificio abitativo, alla città.

3.1 L’isola di cemento

Il romanzo L’isola di cemento (Concrete Island) venne pubblicato nel 1974 presso l’editore londinese Jonathan Cape. Peter Briggs così ne riassume la trama:

L’isola di cemento racconta della strana situazione in cui viene a trovarsi il ricco architetto Robert Maitland, il cui incidente [in automobile], a causa dell’alta velocità, lo lascia ferito ed impossibilitato a muoversi in un triangolo di terreno incolto e pieno di rifiuti all’interno di un raccordo autostradale a nord di Londra. Mentre cerca di uscirne, egli incontra un ex acrobata di mezza età con disturbi cerebrali ed una ragazza psichicamente instabile, che vivono entrambi nell’“isola”, e la sua situazione passa dal bisogno di dominio e sopravvivenza, all’esclusione e al rifiuto della propria posizione e storia nel mondo esterno.17

Inizialmente la ragazza, Jane, gli fa credere di aver chiamato aiuto (Proctor, l’ex acrobata, non parla), ma pian piano Maitland capisce che mente. I due non possono permettere che estranei penetrino in quel piccolo regno che si sono conquistati, un tempo un centro abitato poi espropriato per la costruzione dell’autostrada e i cui resti affiorano qua e là come quelli di una società estinta.18 Man mano che Maitland abita nello spartitraffico, cambia però la sua visione della società. Egli comincia a pensare quel triangolo di sterpaglie non ostile alla vita, ma capace di ospitarla. Il sacrificio finale di Proctor, che muore nel tentativo di aiutarlo ad uscire dall’isola, è inutile. Egli capisce che solo quello è il luogo in cui egli può sopravvivere.

3.2 Il condominio

Il romanzo Il condominio (High-Rise) viene pubblicato sempre da Jonathan Cape, e sempre Peter Briggs così lo riassume: “Il condominio fa la convincente cronaca dei rapidi e spaventosi cambiamenti che avvengono in un grande edificio di quaranta piani nella zona est di Londra, con i suoi abitanti che abbandonano le loro abitudini di appartenenti alla classe medio-alta e diventano cacciatori e prede nella lotta per la sopravvivenza all’interno dell’edificio”.19

Il condominio è avveniristico tanto che “nonostante la vicinanza alla City, circa tre chilometri a ovest lungo il fiume, i palazzi e gli uffici del centro di Londra appartenevano a un altro mondo, nel tempo e nello spazio”,20 e vivendo al suo interno è come se gli inquilini avessero fatto un salto di cinquant’anni nel futuro; non a caso Laing, il medico protagonista del romanzo pensa che “l’architetto deve aver trascorso gli anni della sua formazione in una capsula spaziale... Mi stupisce che non ci siano le pareti curve”.21

Il tempo, nel condominio, sembra avere un ritmo proprio. L’edificio è un mondo chiuso che provvede ad ogni comfort e bisogno per i suoi inquilini. Quando però inizia a perdere efficienza, i suoi abitanti perderanno di umanità, cadendo nella psicosi, man mano che l’edificio si degrada. Al degrado strutturale dell’edificio Ballard fa coincidere il degrado psichico, e la privatopia diviene dis-privatopia: “con i suoi quaranta piani e le migliaia di appartamenti, il supermarket e le piscine, la banca e scuola materna – ora in stato di abbandono, per la verità – il grattacielo poteva offrire occasioni di scontro e violenze in abbondanza”.22

3.3 La città definitiva

Andrzej Gasiorek scrive che La città definitiva “ricapitola la storia della vita di una città dalla sua formazione alla sua discesa nel disfacimento urbano, nel conflitto sociale, nella violenza, nel crimine e nel caos, modellando questa traiettoria sulla trama de La tempesta”.23 Il racconto, pubblicato dopo i due romanzi precedentemente riassunti, ben esemplifica il lato oscuro della privatopia, con il suo esplicito riferimento alla città giardino. Il paradiso urbano che Ebezner Howard aveva proprio denominato garden city, diviene il nome proprio della città, dandole così un’identità paradigmatica.

Il protagonista Halloway costruisce un aliante con il quale sorvolare il mare che costeggia la città. Partendo da Garden City, per colpa di una corrente d’aria, cade nella città abbandonata da decenni che si innalza nella laguna. La metropoli, descritta come un groviglio di grattacieli di acciaio e cemento, fu abbandonata progressivamente e gli abitanti passarono alla bucolica Garden City. Come ogni protagonista delle storie di Ballard, anche Halloway è un nevrotico che preferisce non tornare alla propria città e sceglie di rimanere all’inferno di ruggine della metropoli. La parte iniziale del racconto è caratterizzata dalla descrizione delle due città antitetiche. Garden City è un “mondo elegante ma infantile di pannelli solari e di giardini fioriti, gli allegri mulini a vento e il gentile sussurro delle macchine idroelettriche che funzionavano a marcia ridotta – tutto quel mondo implorava letteralmente una nuova Pearl Harbor”.24 A Garden City non ci sono auto, mentre la metropoli è piena di auto; nella metropoli “ovunque c’erano negozi pieni di materiali domestici, mobilia, vestiti e utensili da cucina, una sovrabbondanza di merci che Halloway non si sarebbe mai aspettato. A Garden City c’era un pugno di negozi –tutto ciò di cui si aveva bisogno, da una nuova cucina a energia solare a una bicicletta ad alta velocità, veniva ordinato direttamente all’artigiano che la progettava e realizzava su misura per le esigenze del committente. A Garden City tutto era così ben fatto che durava un’eternità”;25 mentre nella metropoli c’è disfacimento. Nella metropoli “i tendaggi sintetici e i tappeti, con il loro disegno elaborato e i fili di lamé, erano completamente diversi dal semplice pettinato di lana che si usava a Garden City”.26

Con l’arrivo di Halloway la metropoli riprende vita. Il costruttore della città Buckmaster, che lì si nascondeva, con lui riesce a fare in modo che gli insoddisfatti e i curiosi di Garden City vi si trasferiscano. Ma il disagio metropolitano non esita a rivelarsi nuovamente e nel finale, quando Halloway torna ad essere l’unica persona a godere della Metropoli spopolata, questi ritrova finalmente la città in disfacimento che aveva scoperto all’inizio e che, proprio per questo aveva desiderato di abitare.

4. Personalità e mimetismo urbano

L’associazione fra stati mentali e contesti urbani (o geografici in generale) è stata denominata psicogeografia dai critici dell’opera ballardiana. Peter Briggs cita come esempio la spiaggia terminale dell’omonimo racconto: “Quest’isola è uno stato mentale”27 si sente dire il protagonista del racconto. La fusione fra luogo geografico e stato mentale di chi vi abita produce la psicastenia quando il luogo geografico è distopico. Se si pensa il mimetismo urbano come una reazione difensiva o di adattamento al luogo, per i personaggi ballardiani vale che il meccanismo di difesa è diventato parte integrante della personalità del protagonista.

Ne L’isola di cemento il protagonista finisce per annullare il proprio Sé arrendendosi al viadotto stradale, diventando l’abitante di una corsia spartitraffico. Valentina Guglielmi nota che in Maitland c’è una progressiva “assenza di esperienze emotive”.28 È come se Maitland fosse diventato un elemento architettonico, una condizione che era già predisposta in lui. In Ballard stato mentale e geografico sono sempre mutuamente causa ed effetto reciproci. La psicastenia causa la dis-privatopia, e viceversa. Ne L’isola di cemento c’è “una corrispondenza biunivoca fra il carattere di Maitland – con la sua professione – e gli elementi architettonici che lo circondano: approva le costruzioni fredde e si sente a disagio per tutti gli elementi che trasmettono calore”.29 Esiste quindi già una predisposizione del protagonista alla psicastenia. L’incidente permette a Maitland di venire in contatto con i rifiuti urbani (rovine, carcasse di auto, immondizia) che fanno emergere il suo carattere psicastenico. Il mimetismo inizia già dopo quattro giorni:

Si accorse che cominciava a dimenticare sua moglie e suo figlio, Helen Fairfax e i soci di lavoro: erano ripiegati tutti insieme in una zona meno illuminata, nel retro del suo cervello, e il loro posto era stato preso dal bisogno di cibo e di riparo, dalla ferita e, sopra ogni altra cosa, dalla necessità di dominare il territorio immediatamente attiguo. Il suo orizzonte reale si era ridotto a un raggio di poco più di tre metri, e anche se nel giro di un’ora sarebbe evaso – seppur riluttanti, la ragazza e Proctor lo avrebbero aiutato a scalare il terrapieno – quell’esigenza lo ossessionava come una ricerca perseguita da decenni.30

Gasiorek vede nel permanere di Maitland nell’isola una repressione del Sé, coincidente con il luogo abbandonato, elementare, che è l’isola: questo è vero se lo si intende come meccanismo psichico, qualcosa di simile ad una individuazione junghiana. Il processo però è diverso. Il mimetismo è un meccanismo difensivo che è più vicino alla psicoanalisi freudiana.

Freud inizialmente non distingueva fra introiezione e identificazione e li usava a volte come sinonimi (il termine introiezione fu introdotto da Ferenczi). Sappiamo che Freud intendeva l’introiezione quel fenomeno per cui, “quando l’oggetto diventa fonte di sensazioni piacevoli si produce una tendenza motoria, mirante ad avvicinare l’oggetto all’Io, a incorporarlo in esso”.31 In maniera per certi aspetti simile, ma con scopi protettivi, con l’identificazione, che è un meccanismo di difesa, una persona acquisisce una caratteristica di personalità o di comportamento di un’altra. È come se si trasformasse nell’altra persona. Come sistema di difesa essa ha il compito di ridurre il conflitto con l’altra persona, imitandola, e di preservare l’equilibrio e l’integrità della mente del soggetto che si difende.

Vale la pena di ricordare che Caillois era un surrealista e gli aderenti al movimento manifestarono sempre un particolare interesse per l’opera freudiana. Non interessa qui fare un’ulteriore disamina della teoria di Sigmund Freud. Basterà dire che l’introiezione delle caratteristiche ambientali e l’identificazione con esse mediante il meccanismo di difesa vengono descritte da Ballard quando Maitland arriva a dire “Io sono l’isola”.32 Giunto a questa scoperta del proprio Sé, non stupisce che nel finale dica che lascerà lo spartitraffico “a tempo debito”.33 Infatti, una volta che la psicastenia, da meccanismo di difesa si fa personalità piena, Maitland comincia “a non sentire più alcun vero bisogno di abbandonare l’isola, e tanto bastava a confermargli il suo dominio su di essa”.34

Il processo psicastenico è visibile nella scala ancor più ampia de Il condominio, un edificio di quaranta piani. Qui lo spazio iperorganizzato finisce per scatenare la psicosi negli abitanti dell’edificio.35 Inizialmente il mimetismo è semplice adattamento: gli inquilini assorbono i codici di comportamento stabiliti dalla società del condominio e si distribuiscono nell’edificio come se si disponessero nei diversi livelli di una società: dai piani bassi a quelli più alti cresce lo status sociale ed il conseguente comportamento. Malgrado gli inquilini siano tutti professionisti, il condominio finisce per caratterizzare socialmente gli inquilini: “Mentre i suoi [di Wilder] vicini dei piani bassi restavano una marmaglia, uniti solo dal senso di impotenza, qui tutti si erano raccolti in gruppi locali di trenta appartamenti adiacenti, clan informali che abbracciavano due o tre piani e si basavano sull’architettura dei corridoi, dei pianerottoli e degli ascensori”.36 In questa condizione iniziale in cui la struttura dell’edificio è ancora integra, la psicastenia si manifesta semplicemente sotto forma di “una nuova tipologia sociale, una personalità fredda e antiemozionale, insensibile alle pressioni psicologiche della vita di condominio, con esigenze minimali in fatto di privacy e capace di prosperare come una macchina di nuova generazione, nell’atmosfera neutra. Era il genere di abitante che si accontentava di restare seduto nel suo carissimo appartamento a guardare la televisione senza audio, aspettando che i suoi vicini commettessero un errore”.37

Il mimetismo inquilino/condominio diventa patologico quando gli impianti dell’edificio iniziano guastarsi. A questo punto Ballard trasforma ciò che da sempre è considerato un luogo sicuro, cioè l’interno della propria casa, nel luogo da temere. Il condominio diviene il centro dell’angoscia e proprio come accade a molti psicotici, gli inquilini iniziano a trascurare l’igiene della propria persona, al punto che il cattivo odore che si avverte nel grattacielo sembra quello che si “ritrovava nelle sale autoptiche dell’Istituto di Anatomia”.38 Si produce poi una nuova categoria sociale, quella delle “‘nomadi’ che abitavano in gran numero nel grattacielo: casalinghe annoiate e confinate nell’appartamento o figlie adulte che erano ‘rimaste in casa’, le quali passavano gran parte del loro tempo andando su e giù con gli ascensori e girando per i corridoi del vastissimo edificio, in una migrazione senza fine alla ricerca di qualche cambiamento o fonte di eccitazione”.39

Ne Il condominio Ballard descrive un processo che mancava ne L’isola di cemento, e cioè la risposta dell’ambiente: man mano che la psicastenia aumenta, anche l’edifico sembra rispondere al degrado umano. Ballard fa l’esempio dell’ammaloramento degli impianti: “quasi non c’era più acqua, i condotti dell’aria condizionata erano otturati da spazzatura ed escrementi, le balaustre delle scale erano state divelte […]”.40 L’edificio sembra riflettere le azioni dei suoi abitanti con un meccanismo già osservato in architettura, e cioè che “una costruzione mostruosa crea creature mostruose”.41

La reazione degli inquilini del grattacielo, cioè la fuga e la speranza di non abitare mai più in un condominio sembra essere la stessa reazione rovesciata descritta ne La città definitiva. Halloway fugge dalla perfezione della città giardino. In Ballard gli spazi (urbani, architettonici, abitativi) sembrano essere costruiti per poter essere contestati; “inoltre, questo processo di competizione e lotta attiva è animato dall’interazione fra spazi progettati, pratiche spaziali e spazialità vissuta”.42 Ne La città definitiva Ballard porta questa contestazione alla dimensione metropolitana, ampliando e riunendo quanto già descritto nei due testi precedenti. C’è anche qui uno spostamento da un luogo nel suo opposto. Dall’utopia della città giardino Halloway parte per poi lasciarsi tentare dalla distopica metropoli abbandonata. È lo sfacelo che lo attrae:43 “nonostante il suo aspetto minaccioso, il blocco di grattacieli gli dava più sicurezza del mondo pastorale di Garden City, con i suoi contadini gentili e i suoi ingegneri. Fra quegli alti edifici – al piano più alto, ne era certo – doveva esserci l’appartamento dove avevano vissuto suo padre e sua madre. E per quanto i suoi nonni potessero essere preoccupati per la sua sicurezza, Halloway era certo che anche loro, come la folla sulla spiaggia, sapessero anche troppo bene dov’era andato”.44 L’energia che egli scopre in Buckmaster, il desiderio di urbanizzare, costruire, asfaltare, cioè di sostituire il territorio naturale con i materiali artificiali, gli fa pensare alle vite degli abitanti della sua città giardino d’origine, e quindi alla sua, come “rinunciatarie e disfattiste”.45 Ma l’utopica distopia che era la Metropoli che Halloway aveva trovato al suo arrivo, con il flusso di migranti da Garden City rischia di trasformarsi in una nuova Garden City, cosa che Halloway non può sopportare. La pulsione di vita, nei protagonisti ballardiani è comunque destinata a soccombere, e la pulsione di morte riprende sempre il sopravvento.46 Lo stato ideale in cui Halloway vuole vivere, come Laing e Maitland, è quello della dis-privatopia; essi riescono a realizzarsi solo se il processo psicastenico si attiva in queste condizioni urbane. In questo caso il desiderio di morte di Halloway viene soddisfatto dalle condizioni che trova nella metropoli abbandonata. Per questo motivo, quando la metropoli ricomincerà a spopolarsi e tutti ritorneranno a Garden City, egli solo vorrà rimanere fra gli edifici abbandonati.

5. Conclusioni

Parte della Urban Disaster Trilogy ed il racconto La città definitiva di Ballard hanno fra suoi motivi fondanti la degenerazione psicastenica dei suoi protagonisti, siano essi persone (l’architetto Maitland, il medico Laing e il pilota Halloway) o ambienti (un’isola spartitraffico, un condominio, una metropoli). La definizione di psicastenia di Caillois, che fa riferimento ad un mimetismo psicologico difensivo nei confronti dell’ambiente, trova applicazione nella trilogia ballardiana, la quale descrive una degenerazione psichica ed ambientale.

La mutua degenerazione esistente fra ambiente ed abitanti che Ballard mette in scena non è altro che una visione distopica dei paradigmi della psicologia sociale che in quello stesso periodo (fine anni Sessanta, inizio anni Settanta) venivano sviluppati. L’idea che un ambiente ordinato producesse abitanti civili e migliori, propugnata dagli urbanisti, e quella propugnata dagli psicologi che società ed ambiente si potessero migliorare vicendevolmente, viene rovesciata da Ballard: nei suoi romanzi la privatopia diviene dis-privatopia.

A livello formale Ballard degrada dunque la costruzione utopica a distopia ma, contemporaneamente, con un processo di mimetismo, innalza la distopia a particolare forma di utopia contemporanea. L’isola di cemento e Il condominio sono, riprendendo il termine di McKenzie, sia privatopie e che dis-privatopie, luoghi rifugio per moderni Robinson Crusoe, siano essi isole deserte (L’isola di cemento e La città definitiva) o affollate (Il condominio); esse però non saranno colonizzate, come accadeva nel romanzo di Defoe, ma subite; esse dunque non sono luoghi utopici47 nel senso comune del termine, ma lo diventano nell’ottica rovesciata di Ballard.

L’isola di cemento e La città definitiva da una parte, e Il condominio dall’altra, descrivono i due luoghi opposti della vita urbana: i primi due testi rappresentano lo spazio dell’abbandono urbano e dell’assenza di relazioni sociali, dove però alla fine nascono; il terzo è il luogo per eccellenza dove le relazioni dovrebbero nascere, e invece non nascono. Tutti e tre, a modo loro, descrivono “la finis del sogno modernista della pianificazione razionale e del design urbano”48 finendo per essere l’apoteosi della corruzione, del degrado, dell’abbandono. Ugualmente i personaggi che le abitano effettuano una conradiana “immersione nell’elemento distruttivo [che] offre l’unica possibilità di affrontare queste ambiguità a testa alta”.49 Essi divengono psicopatici man mano che l’ambiente circostante degrada: nell’isola spartitraffico si accumulano i rifiuti gettati dalle auto di passaggio; nel condominio i guasti degli impianti rendono invivibili gli alloggi; gli spazi comuni destinati alla socialità divengono teatro di guerriglia urbana; nella metropoli i moti rivoluzionari nascono con l’arrivo dei cittadini dalla paradisiaca Garden City. Questa mutua entropia (ambientale e psichica) si sviluppa a causa di una spinta al mimetismo come definito da Roger Caillois. Nei personaggi e negli ambienti di Ballard vige la necessità di difendersi reciprocamente, e non di aprirsi, come invece volevano gli urbanisti utopici, in un progressivo annullamento dell’ordine ambientale e della razionalità.

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  1. Ballard descrisse il concetto di spazio interno (inner space) nel programmatico manifesto Da che parte è lo spazio interno? (Which Way to the Inner Space?, 1962), pubblicato quando la rivista “New Worlds” era ancora curata da John Carnell: la nuova fantascienza deve trattare delle conseguenze che l’era spaziale ha avuto sulla psicologia umana.

  2. Kelly (1972, p. 1).

  3. Romanzo utopico di Edward Bellamy, ebbe uno straordinario successo popolare e per decenni rimase fra i più letti negli Stati Uniti. La storia è quella di Julian West che, afflitto dall’insonnia, tenta una cura che lo addormenta per oltre un secolo e lo fa svegliare nella Boston dell’anno 2000. Il romanzo raccoglie le innovazioni che West trova al suo risveglio, la maggior parte delle quali derivano da una gestione marxista del territorio.

  4. McKenzie (1994, p. 12).

  5. Ivi, p. 177.

  6. Nel romanzo di Mack Reynolds The Towers of Utopia del 1975 sono descritti immensi condomini il cui accesso è controllato da sistemi di sorveglianza, proprio come descritto da Soja (Post Modern Geographies: The Reassertion of Space in Critical Social Theory, 1989; Thirdspace: Journal to Los Angeles and Other Real-and-Imagined Places, 1996) qualche decennio dopo rispetto all’invenzione letteraria di Reynolds.

  7. García (2015, pp. 74-75).

  8. Come esempio si può portare l’architettura sovietica: oggi, a distanza di quasi un secolo, alcune forme dell’utopia urbanistica sono diventate sinonimo di totalitarismo, in particolar modo dello stalinismo (Ganjavie, 2012): molti piani urbanistici estensivi realizzati nell’Unione Sovietica prevedevano lo spostamento di migliaia e migliaia di persone, il loro intento era quello di portare ordine e progresso in territori altrimenti desolati o selvaggi.

  9. Castrogiovanni et alii (2002).

  10. Caillois (2003, p. 99).

  11. Ivi, p. 100.

  12. Qui Caillois sembra riprendere Freud, tra l’altro una fonte di ispirazione per tutti i surrealisti. La mitologia di Caillois non deriva dall’impulso vitale, ma da un processo patologico, e qui riprende ancora Freud. È la pulsione di morte a creare il mimetismo.

  13. Eidelpes (2014, p. 1).

  14. Ivi, p. 5.

  15. Soja (2007, p. 324).

  16. Briggs (1985, p. 68). La prima quadrilogia catastrofica comprende, oltre ai già citati Deserto d’acqua e Foresta di cristallo, anche Il vento dal nulla (The Wind from Nowhere, 1962) e Terra bruciata (The Drought, 1964).

  17. Ivi, p. 68.

  18. Marchi (1995, p. 117).

  19. Briggs (1985, p. 68).

  20. Ballard (2003, p. 9).

  21. Ivi, p. 10.

  22. Ivi, p. 7.

  23. Gasiorek (2005, p. 129).

  24. Ballard (2005, p. 153).

  25. Ivi, p. 159.

  26. Ivi, p. 162.

  27. Ballard (2004, p. 271).

  28. Guglielmi (2009, p. 3).

  29. Ivi, p. 8.

  30. Ballard (2007, p. 81).

  31. Freud (1915, pp. 31-32).

  32. Ivi, p. 63.

  33. Ivi, p. 153.

  34. Ivi, p. 154.

  35. Un’isteria sessuale in ambiente condominiale è quella descritta dal regista canadese David Cronenberg nel film Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), prodotto nello stesso anno in cui Ballard pubblica il suo romanzo.

  36. Ballard (2003, pp. 71-72).

  37. Ibidem.

  38. Ivi, p. 117.

  39. Ivi, p. 36.

  40. Ivi, p. 131.

  41. García (2015, p. 74).

  42. Zhang et alii (2008, p. 906).

  43. Questa attrazione per gli stati corrotti della materia è simile a quello descritto sempre da Ballard in Crash, pubblicato nel 1973: qui ci sono i protagonisti che simulano gli incidenti di personaggi famosi e godono delle proprie ferite e deformità.

  44. Ballard (2005, p. 161).

  45. Ivi, p. 185.

  46. Ballard non segue la teoria freudiana che vuole la pulsione sessuale contrapporsi alla pulsione di morte: in Ballard la sessualità finisce sempre per coincidere con l’inorganico e la distruzione della vita. Basti pensare ai romanzi La mostra delle atrocità e Crash, ove il sesso è connesso alla meccanica dell’automobile e sempre all’inorganico, tanto da trasformare le persone in cyborg. Si può vedere in merito Gramantieri (2009).

  47. Guareschi (1995, pp. 101-103).

  48. Gasiorek (2005, p. 108).

  49. Ivi, p. 23.