Il tema di cui parliamo oggi è un tema difficile e ancora più difficile è farlo di fronte all’artista oggetto di queste riflessioni, Claudio Parmiggiani che, a mio giudizio, è un grandissimo pittore, tra i più grandi pittori contemporanei e non solo nel nostro Paese. La sua ricerca infatti si distingue in modo assoluto nel panorama dell’arte contemporanea per originalità, profondità e poeticità.
Ma oggi prendiamo in esame, in particolare, il rapporto tra l’opera di Parmiggiani e la dimensione della spiritualità. Vorrei partire da una distinzione un po’ didattica, che mi pare però necessaria prima di cominciare ad esaminare alcune delle sue opere più importanti.
Distinguerei due forme fondamentali della spiritualità. La prima sarebbe quella di chi la vive in modo diretto. Lo dico con una formula molto rapida: vivere la spiritualità come fuga dal mondo; vivere il sentimento religioso come aspirazione ad un mondo al di là del mondo; ad un mondo dietro al mondo, ad un mondo trascendente, più vero del mondo in cui noi viviamo.
Esiste, cioè, una forma del sentimento religioso e della spiritualità, per dirlo in altre parole, a partire dalla miseria di questo mondo, a partire dalla povertà di mondo di questo mondo, che aspirerebbe ad un mondo non corrotto, dal tempo eterno – ad un mondo finalmente beato, ad un mondo libero dal mondo. Ad un mondo che non conosce la morte, che non conosce il tempo, che non conosce più la vita.
Dunque, esiste una dimensione, se posso dire così, dove la spiritualità, per certi versi, è un rifugio – direbbe Freud – rispetto all’atrocità del mondo. È una fuga rispetto alla dimensione immanente della vita, dell’esistenza, è una fuga rispetto all’ingovernabilità della vita e dell’esistenza. Da questa concezione del sentimento religioso deriva, come vedremo, una certa spiritualità, un certo modo di intendere la spiritualità nell’arte. Non si tratta evidentemente di quella di Claudio Parmiggiani.
Perché dobbiamo dire che esiste una seconda declinazione della spiritualità del sentimento religioso, che non ha il suo presupposto nella povertà del mondo, nel deficit del mondo – nell’assenza di mondo di questo mondo, che è un mondo falso rispetto al mondo vero, che è un’ombra rispetto alla verità eterna del mondo al di là del mondo. Come dire, esiste una forma del sentimento religioso e della spiritualità che non nega il mondo; che non è una fuga dal mondo, che non ha come presupposto la povertà di questo mondo intaccato dal tempo, destinato alla corruzione, destinato a diventare polvere – torneremo su questo tema della polvere che è un grande tema della poetica di Parmiggiani. Ma piuttosto, questo sentimento della religiosità – ecco il punto – sorge dalla ricchezza del mondo, dallo splendore del mondo, non dalla sua povertà che deve essere riscattata in un altro mondo, ma dalla bellezza, appunto, dallo splendore del mondo e, potremmo dire, anche dalla atrocità del mondo.
Questa è un’altra forma di spiritualità – ed è questo il punto, diciamo, che più mi interessa della predicazione cristiana – la forma che tiene insieme, secondo me, l’elemento della immanenza e l’elemento della trascendenza, dove allora la trascendenza non è più una fuga dall’immanenza. Non è un mondo dietro al mondo, ma è una piega interna all’immanenza: dal punto di vista teologico è il grande problema dell’incarnazione, della kenosis. Dio che si fa uomo.
Ma dal punto di vista, è pensare che il sacro, il sentimento religioso, il sentimento stesso dell’assoluto, non è una liberazione dal mondo, non è una fuga dal mondo, ma è l’evento stesso del mondo. È questo evento che tutta l’opera di Parmiggiani glorifica. Glorifica la trascendenza come piega dell’immanenza: come dire, il numinoso nell’opera di Parmiggiani è dappertutto. Non è al di là del mondo. Il divino stesso non è al di là del mondo, non è oltre questo mondo, ma è tutto nel mondo. Se si vuole, è il francescanesimo fondamentale di Parmiggiani: pensare, appunto, che l’assoluto si dà come piega del mondo, la trascendenza si dà tutta nell’immanenza del mondo, “l’infinito”, scrive Claudio Parmiggiani, “è dentro una mano”. L’infinito non è rappresentato gnosticamente come al di là del mondo, ma è tutto nel finito.
E allora, da una parte, il sentimento religioso – lo voglio dire con le parole più semplici – sorge come negazione del mondo e come aspirazione ad un mondo più vero rispetto a questo mondo, e quindi come liberazione dello spirituale dalla materia. È evidente lo gnosticismo fondamentale di questa versione del sentimento religioso inteso come liberazione dello spirituale dalla materia.
Dall’altra parte, invece, il sentimento religioso nasce dallo stupore nei confronti della bellezza del mondo; dall’eccesso, dallo splendore del mondo, dalla meraviglia anche traumatica del mondo. Allora è indubbio che se c’è (e sicuramente c’è) una dimensione profondamente spirituale nell’opera di Parmiggiani, noi la dobbiamo declinare in questa seconda versione: non come fuga dal mondo ma come rapporto col mistero del mondo.
Dunque, il sentimento religioso tiene insieme la dimensione della assoluta immanenza e della assoluta trascendenza come piega dell’immanenza, questo è il presupposto per leggere, secondo me, la dimensione spirituale dell’opera di Parmiggiani.
Potremmo affermare allora – non parlo da storico dell’arte, perché leggo l’arte con altri occhi – che esiste una versione dello spirituale nell’arte “alla Kandinsky”, se posso dire così, per fare un nome e tutta la stagione dell’astrattismo in fondo riprende questa lezione fondamentale, che consiste nell’emancipare, nello svincolare lo spirituale dalla materia. Far evaporare, come dire, smaterializzare nell’astratto, nella dimensione astratta dell’immagine lo spirituale dalla materia. Quello che Giorgio Morandi – grande maestro, grande presenza per Claudio Parmiggiani – definiva una scorciatoia. L’astrattismo sarebbe una scorciatoia. Scorciatoia significa pensare di emancipare lo spirituale dal materiale. Pensare che lo spirituale nell’arte consisterebbe nella smaterializzazione dell’opera.
E invece abbiamo una tradizione – qui non so se l’artista sarà d’accordo – in cui secondo me va iscritta l’opera di Parmiggiani a proposito dello spirituale, una tradizione che potremmo far risalire fino a Caravaggio, che trova un punto fondamentale in Van Gogh che, secondo me, è uno degli ultimi grandi pittori del sacro.
E faccio notare che Van Gogh non dipinge mai immaginette religiose, cioè, non fa pittura religiosa, tranne rarissimi casi, per esempio la Deposizione, una delle ultime opere, che riprende da Delacroix, in cui attribuisce al Cristo il suo stesso volto. Ma fondamentalmente Van Gogh che cosa dipinge? Non dipinge i santi, le immagini religiose. Certo, scrive al fratello Teo in una delle ultime lettere, “il mio obiettivo sarebbe stato, avrei voluto dipingere, una sola cosa: il volto del santo”. Avrei voluto dipingere solo il volto del santo: enigma… E per dipingere il volto del santo che cosa ha dipinto? Ha dipinto il volto del mondo. E quindi cipressi e quindi girasoli, quindi cieli stellati e quindi le cose, le sedie. E quindi ogni cosa del mondo assume il volto del santo, e questa è la cifra fondamentale dell’opera di Parmiggiani: ogni cosa del mondo assume il volto del santo, è l’immanenza a rivelare, diciamo così, il mistero, il segreto della trascendenza.
Allora abbiamo una tradizione anti Kandinsky, se posso così schematizzare didatticamente le cose, che viene sicuramente da Van Gogh. Questa lezione passa da Giorgio Morandi che, a sua volta, non ha mai dipinto cose religiose, ma è chiaro che tutto il suo lavoro sulle cose del mondo è un lavoro finalizzato a dare immagine all’invisibile: le bottiglie diventano sagoma, sagoma metafisica dell’assoluto. Quindi abbiamo Van Gogh, abbiamo Morandi, abbiamo, per certi versi, la straordinaria pittura di William Congdon, che, diciamo, prende più di petto la simbologia religiosa – si pensi al ciclo dei crocifissi. E poi abbiamo Claudio Parmiggiani che, secondo me, si inscrive in questa linea dello spirituale nell’arte. Ma non nel senso “alla Kandinsky”, cioè di smaterializzazione dell’arte. Voglio dirlo con le parole di Claudio Parmiggiani, che riprende una celebre massima di Paul Klee (“l’arte deve rendere visibile l’invisibile”), ma vi aggiunge una parola chiave: “il grande compito dell’opera”, afferma, “è rendere sensibile l’invisibile”. Rendere sensibile vuol dire incarnare l’invisibile, dare corpo all’invisibile. È il corpo delle campane, è il corpo delle farfalle, è il corpo degli strumenti musicali, è il corpo dei cuori di ghisa, è il corpo delle scale, è il corpo dei pani. È il corpo di tutte le presenze che abitano l’opera di Parmigiani: il numinoso è ovunque, è dappertutto. È nel mondo ed è al di là del mondo, la formula che troviamo anche nei testi biblici. Noi siamo nel mondo, ma non siamo di questo mondo, però siamo nel mondo. Immanenza e trascendenza, questo è lo snodo fondamentale.
Dunque lo spirituale di Parmiggiani è uno spirituale che si radica nell’immanenza della vita, nel mistero della vita. A questo punto possiamo vedere la prima immagine da cui vorrei partire, perché è l’altare del duomo di Reggio Emilia del 2011.
È un’immagine che colpisce per la sua straordinaria essenzialità: nessun ornamentalismo, nessun ghirigoro. Sono bellissime le parti dei testi di Parmiggiani dove egli ironizza sull’arte contemporanea – figlia di Walt Disney, dice in un passaggio: Minnie, Topolino, il circo, i fuochi d’artificio… Qui non c’è niente. Non c’è assolutamente niente, c’è l’essenziale, il segreto dell’essenziale. È una grande opzione di metodo.
Per Parmiggiani bisogna nascondere non mostrare. Seppellire non esibire, secretare non manifestare, non ostentare: tutta l’opera di Parmiggiani, che riflette anche il suo carattere, se posso dire così – ma non voglio fare lo psicoanalista – è introversa, profondamente introversa. È proprio il contrario della esibizione ostentata, provocatoria di cui si nutre gran parte dell’arte contemporanea. Qui invece c’è il senso dell’appartarsi, del nascondimento – appunto della introversione. C’è tutto in questo altare, nella sagoma essenziale di questo altare.
Ma dobbiamo subito porci una domanda: questo altare non potrebbe essere preso come il simbolo della biforcazione di queste due forme fondamentali dello spirituale? Lo spirituale come fuga dal mondo, negazione del mondo o lo spirituale come stupore nei confronti della ricchezza e dello splendore atroce del mondo? Perché, in fondo, l’altare sarebbe anche il luogo per la prima forma di spiritualità, quella del sacrificio, della celebrazione di un sacrificio. Ma se il sentimento religioso si istituisce sulla celebrazione del sacrificio o su una interpretazione sacrificale della vita, secondo cui si deve rinunciare a questa vita per avere più vita in un’altra vita, come insegna una lettura solo sacrificale del cristianesimo (vivere una vita che nega la vita, per accedere a una vita più ricca, vivere nel sacrificio), allora l’altare diventa un simbolo di una procedura sacrificale – prima via.
Oppure – seconda via: questo altare, che non è un altare che evoca il sacrificio in nessun modo, è un altare che evoca la luce del mondo. È un altare che non evoca, diciamo così, le tristi sagome sacrificali della penitenza, della espiazione. Ma è un altare che riflette la luce del mondo, l’apertura luminosa del mondo. Filtra la luce. L’altare non è dunque il luogo dove si compie un rituale sacrificale.
Nelle parole di Gesù: “Basta coi sacrifici”, cito dai Vangeli apocrifi. “Basta coi sacrifici, se non smetterete di sacrificare la vostra vita non cesserà contro di voi la mia ira”. Basta con sacrifici, cioè basta con una concezione solo penitenziale della religione.
In Claudio Parmiggiani non troviamo nessuna versione penitenziale, sacrificale del sentimento religioso, troviamo piuttosto la dimensione stuporosa, luminosa del sentimento religioso. Questo altare, secondo me, insieme alla essenzialità, esprime la poesia del segreto, che è una cifra fondamentale di Parmiggiani. Penso a una sua opera celebre, intitolata Terra, una palla, se ricordo bene, di 75 cm, sotterrata: l’artista è come quel cane che vede assediato il suo osso, e per proteggere il carattere prezioso del suo osso lo deve seppellire.
Oggi l’opera d’arte per sopravvivere ha bisogno di essere nascosta, ha bisogno di oblio non dei riflettori, non del circo mediatico. Ecco allora la tecnica di seppellimento. L’opera di Parmiggiani introduce una serie di variazioni su questa tecnica, su queste tecniche del seppellimento: sono un modo per far resistere il sentimento estetico in un tempo come il nostro, che tende a distruggere il sentimento estetico. La condizione del sentimento estetico è dunque il nascondimento, non è l’esibizione, è il nascondimento.
Quindi in questo altare noi troviamo un po’ tutte queste dimensioni. Voglio ripeterlo: “Rendere sensibile l’invisibile”, questa mi pare la formula che Parmiggiani ci dà per orientarci nel suo modo di leggere lo spirituale nell’arte.
Questa è un’opera che io amo moltissimo. Testa bendata con farfalla, senza titolo – siamo nel 1970. È un opera che trovo straordinaria. La sua bellezza poetica non si può spiegare con le parole, direbbe Burri – altra grande presenza sullo sfondo dell’opera di Parmiggiani. Il grande maestro umbro ci ricorda sempre che esiste una sproporzione tra l’imminenza dell’opera, la irriducibilità della presenza dell’opera e qualunque parola sull’opera. Come dire che le parole sono sempre destinate ad arrivare in ritardo sull’evento dell’opera, e ogni volta che la critica si impegna a tradurre, decodificarne simbolicamente il valore, perde l’evento dell’opera. L’evento dell’opera, diceva Burri – ma penso che Parmiggiani condivida perfettamente queste parole – non può essere spiegata dalle parole. Come dire che l’opera stessa testimonia del mistero.
E qui abbiamo un’opera di straordinaria poesia. Certo, potremmo ricavarne delle citazioni, dei riferimenti, ma colpisce intanto l’opera di straordinaria poesia, con queste presenze che noi vediamo: per esempio, lo straccio e la farfalla. Voglio citare ancora Parmiggiani: “c’è più tragedia in uno straccio che in tutta la tragedia greca”. Perché c’è più tragedia nello straccio? Perché lo straccio parla di noi. Perché noi in fondo siamo stracci, siamo fatti con una materia, diciamo, particolare, non perfetta. Lo straccio dell’esistenza… Uno straccio è un “oggetto resto”, è un oggetto caduco. Lacan direbbe “oggetto piccolo a”, lo dico per chi conoscesse il testo di Lacan. È un oggetto scarto, un oggetto al margine. Ma lì c’è la poesia, dove c’è il marginale, l’appartato, la ferita, lo straccio, lì è la poesia. E dunque in quest’opera io vedo una straordinaria incarnazione di quello che sto cercando di dire e cioè che lo spirituale appare nelle presenze del mondo, non al di là delle presenze del mondo, proprio nelle presenze del mondo. E questo ci porta a vedere un’altra opera.
Si tratta di un lavoro del 1995, anche questo senza titolo. È un opera che colpisce perché nella sua essenzialità, come si può vedere, mette in rilievo un grande tema della poetica di Parmiggiani, che è anche un grande tema teologico, cioè il rapporto tra le tenebre e la luce. Secondo la via “alla Kandinsky”, come abbiamo detto, dello spirituale nell’arte, che si ispira in fondo a una matrice platonica, tra le tenebre e la luce esiste un rapporto di eterogeneità irriducibile: da una parte, le tenebre, dall’altra, la luce. Da una parte, le tenebre del finito, dall’altra, la luce dell’infinito; da una parte, le tenebre del mondo quaggiù in cui noi siamo e dall’altra, la luce del mondo al di là del mondo. Vediamo qui tutta la vocazione antiplatonica dell’opera di Parmiggiani, perché Parmiggiani mette sempre insieme tendenzialmente l’ombra e la luce. “L’ombra”, scrive, “è il sangue della luce”, l’ombra è il sangue della luce, è il corpo della luce, non c’è la luce che annienta l’ombra. Non c’è l’ombra che annienta la luce, il mistero è la luce che taglia l’ombra. È la luce che avviene nell’ombra, è lo splendore del mondo che avviene nell’atrocità del mondo.
Io vedo in questa, come in tante altre opere, la chiarezza vangoghiana, se posso dire così, di questo giallo purissimo, dove l’intensità avviene per incentivazione non per contrasto. C’è una purezza assoluta del giallo, ma c’è anche la presenza costante dell’ombra. L’ombra appunto è il sangue della luce. Come dire, non è l’altro della luce secondo una lettura gnostica, ma è dentro la luce. E questo è il carattere dell’opera.
Ora vi faccio vedere due immagini, ma l’opera è una sola. Il lavoro è stato presentato al teatro Farnese di Parma nel 2006.
Prima sequenza: un labirinto di vetri. Seconda sequenza: nel frattempo è passato il pittore e, forse con una mazza, ha colpito i vetri e li ha frammentati, e questo è il risultato. Ecco, questa è un’opera molto importante perché, da una parte, abbiamo la rappresentazione della città, come scrive Parmiggiani, “euclidea”, l’ordine della città, dove appunto tutto è ordinato, geometricamente composto, equilibrato – è quello che noi diremmo il quadro canonico della realtà. Il quadro canonico della realtà è un quadro che esclude il disordine, che esclude l’urto, che esclude il trauma. Nel quadro ordinato della realtà tutti noi siamo addormentati, direbbe Lacan. Noi siamo svegli, ma quando siamo nel quadro ordinato della realtà, siamo tutti addormentati, non abbiamo occhi per vedere il mondo, né la sua atrocità, né il suo splendore – ci vuole un urto. Parmiggiani usa molto spesso un’immagine, che è stata anche di Freud. Ci vuole qualcosa che assomigli a un incendio. L’incendio di fronte a un’opera d’arte, noi siamo sbigottiti in un silenzio come se assistessimo ad un incendio, sono parole sue.
L’opera d’arte è qualcosa che scuote come l’incendio o come i colpi di mazza che intervengono a segnare il passaggio dal quadro canonico della realtà all’esperienza traumatica del reale che ci sveglia, ci scuote, ci fa aprire gli occhi. Questa è una concezione non albertiana dell’opera d’arte: l’opera d’arte non è una finestra sul mondo, una semplice finestra da cui noi osserviamo prospetticamente il mondo. Qui, come possiamo notare, il passaggio è traumatico: l’opera d’arte è un trauma, colpi di mazza, potremmo dire, brutalizzando.
Vedete come Parmiggiani, che continua a considerarsi pittore, in quest’opera evidentemente non usa il pennello, la tavolozza, il cavalletto, come accade del resto anche in altri grandissimi, penso a Burri, a Kounellis. Qui il pittore si arma di una mazza, come Burri si è armato della fiamma ossidrica. La fiamma ossidrica sparata sulle plastiche, la mazza che colpisce il vetro: che cosa ci dicono? Voglio usare un paradigma di Parmiggiani: ci dicono che l’essenza dell’opera d’arte è anti-teatrale. Cosa vuol dire anti-teatrale? È un punto su cui i suoi scritti insistono: vuol dire che non è semplicemente una rappresentazione. Ma è qualcosa che traumatizza la rappresentazione e dunque segna, come abbiamo visto, il passaggio dal quadro statico, ordinato della città euclidea, della ragione, del nostro sonno quotidiano al quadro del frammento, del naufragio, della atrocità del mondo e del suo splendore.
Questo diciamo è il primo grande tema che volevo mettere in evidenza.
Il secondo punto mi interessa molto anche come psicoanalista. A mio parere è la seconda grande cifra dello spirituale di Parmiggiani nell’arte. Lo devo dire con una coppia di termini difficili, ma che spiego il più semplicemente possibile: è il rapporto tra il linguaggio e quello che Lacan scrive con un neologismo, con una parola francese, lalangue, scritto tutto attaccato, in italiano traduciamo lalingua tutto attaccato: linguaggio e lalingua.
È un opera a me molto cara. Credo che sia dei primi anni del Duemila. È il peso del cuore sul libro. Perché ho scelto quest’opera per introdurre questa seconda coppia? La prima coppia era lo spirituale come fuga dal mondo, lo spirituale come esperienza della trascendenza immanente al mondo, adesso facciamo questo lavoro sul linguaggio e lalangue, ma prima di farlo, c’è una indicazione metodologica, se posso dire così. E anche questa è molto cristiana, se Claudio mi permette. Perché qual è il principio fondamentale dell’ermeneutica cristiana? Che i libri, il Libro, se volete, le sacre scritture, ma noi potremmo dire più laicamente i libri, si possono leggere solo con il cuore. Se uno non legge con il cuore, rimane inchiodato alla lettera, non coglie lo spirito del libro. Perché un libro sia veramente aperto, ci vuole un cuore, il peso del cuore di ghisa, come in quest’opera, che apre il libro. Altrimenti il libro resta chiuso: c’è erudizione, filologia morta, sapere senza vita: l’accademia è piena di queste cose, l’accademia, l’università, le nostre scuole – adesso sarei tentato di fare un excursus che non faccio sulle nostre scuole.
O chi insegna mette il cuore sul libro e lo apre, e rende possibile allora l’accesso autentico alla lettura o siamo spacciati: i libri restano chiusi. Ma questa è un’indicazione di Gesù, lettore delle sacre scritture, che spiega che non si può leggere senza cuore. Per cogliere la verità del libro bisogna, come dire, dare testimonianza di quella verità. Altrimenti essi – dice Gesù riferendosi ai sacerdoti – “dicono, dicono e non fanno ciò che dicono”, cioè, il sapere resta separato dalla vita, questo è un principio ermeneutico fondamentale per leggere l’opera di Parmiggiani, Ci vuole il cuore e il cuore non è un analfabetismo, non è il fragore della pancia, non è l’emozione bruta. La cosa bella, straordinaria di quest’opera è il rapporto tra il cuore e il libro: non è il cuore separato dal libro, facile sentimentalismo. Come dire: c’è più vita nella vita che non nei libri. Se vuoi imparare la vita dimenticati i libri… Quante volte sentiamo questi assiomi del senso comune: chi insegna cos’è la vita, è la vita non il libro.
Qui invece Parmiggiani problematizza questo schematismo volgare, mostrando che il cuore apre il libro, e l’apertura del libro arricchisce la vita, fa parte della vita, non c’è la vita o il libro, c’è il cuore che apre il libro.
Il linguaggio e lalangue, torniamo su questo punto per dare una rapidissima informazione. Il linguaggio è un sistema. È un sistema che ha delle leggi, queste leggi sono sovraindividuali. Adesso parlo, sto usando il sistema del linguaggio, voi mi capite perché questo sistema è universale, le sue leggi sono condivise e dunque la mia parola è sufficientemente comprensibile. Il linguaggio è un sistema articolato di segni con delle leggi appunto sovraindividuali che lo organizzano. Qual è il punto? Il punto è che il linguaggio, questo sistema articolato di segni, transindividuale (perché io posso parlare grazie al linguaggio, non sono io che genero il linguaggio, è il linguaggio che genera la possibilità della mia parola, io posso parlare solo perché esiste il linguaggio), ecco, questa rappresentazione sistemica del linguaggio viene in fondo travolta da Parmiggiani.
Ma questo è anche un pensiero di Lacan, che ci mostra che sotto il sistema del linguaggio esiste un’altra forma della lingua, che noi chiamiamo appunto lalangue, lalingua e che non è una struttura articolata. Non risponde a leggi universali ma è singolarissima, è fatta di memoria di suoni, di profumi, di colori, di tracce mnestiche, questa è lalangue. Lacan usa questa parola celebrando il bambino nei suoi primi movimenti di lallazione con la sua mamma. Se ascoltiamo un bambino che “parla” con la sua mamma prima di acquisire lo strumento del linguaggio, cosa sentiamo? Dei suoni, delle parole, ma anche dei profumi, un impasto dei corpi, una sedimentazione di emozioni, il bambino che cinguetta con la sua mamma, nella dimensione arcaica della lalangue – che viene prima del linguaggio. E allora questa lalangue è fatta appunto di addensamenti singolari. Il linguaggio è universale, lalangue è singolare, ciascuno di noi, potremmo dire, ha la sua lalangue. Ciascuna terra, questa terra, la terra di Claudio Parmiggiani ha la sua lalangue: le reti dei pescatori, le pianure, le rane, le farfalle, l’acqua, i fiumi, i pesci nei fiumi, i fiori, ogni terra ha la sua lalangue, ogni soggetto ha la sua lalangue e allora cosa sarebbe il gesto poetico che noi troviamo in Parmiggiani? È una verticalizzazione che taglia il linguaggio e fa emergere lalangue nel linguaggio. Primo taglio: taglia l’immanenza del mondo e fa emergere il numinoso all’interno dell’immanenza del mondo. Secondo taglio: taglia il linguaggio e fa emergere lalangue.
E questa emergenza de lalangue è l’emergenza di tracce. Potremmo dire che tutte le presenze che abitano l’opera di Parmiggiani sono tracce mnestiche, tracce della sua memoria, che hanno un fulcro: l’incendio della casa rossa su cui non insisterò, perché il tema del fuoco, come avete visto, è un tema molto presente: l’opera è un incendio, si assiste alla presenza dell’opera come fossimo traumatizzati dall’incendio – l’incendio della casa rossa, la fine del mondo dell’infanzia, il ritorno costante della sua opera su lalangue di quel mondo. E allora per concludere devo leggere, voglio leggere, per chi non conosce bene il lavoro di Parmiggiani, un passaggio dell’opera sua, di un suo testo. Mentre io leggo queste righe dobbiamo immaginare che tutte queste presenze che vengono evocate sono opere, diventano opere, sono la materia dell’opera.
Come dire, la materia dell’opera è fatta de lalangue. Lalangue è la sedimentazione di queste tracce mnestiche che vengono riattivate dall’operazione della creazione artistica. Prendiamo questa frase come centrale: la lingua è materia. Cosa vuol dire? Il linguaggio non è un sistema di segni, la lingua è materia, lalangue è materia, profumi, suoni, affetti, emozioni, colori, ricordi… E allora sentite questo passo:
Sogno terra nera e fango, terra di cimitero. Sogno case senza porte, case sventrate, sgretolate, finestre dai vetri rotti, povere umilissime camere, letti d’ospedale, lazzaretti, garze, intrise di sangue raggrumato, tosse, fiato, volti di patimento, cucine rancide, pareti di cartone, ragnatele, reti da pesca appese ovunque, rossi gamberi su bianchi piatti. […] Sogno mia madre e mio padre, vedo il loro sorriso, le loro mani e i loro piedi coperti di piaghe. Cammino nella primavera avvolto da una moltitudine di farfalle. Mi vedo nella bianca luce correre a piedi nudi accanto ai vecchi platani mentre cerco di catturarle, splendenti e palpitanti premere dentro il palmo della mia mano. Vedo la vecchia Richina accanto alla chiesetta dei lillà, con il chiaro d’uovo e la rugiada raccolta nella prima luce dell’alba guarire con magici segni la mano ferita di mio fratello.1
Tutto questo è lalangue. Lalangue è un universo, ma non è l’universo del linguaggio, l’universo del linguaggio è un universo singolare, lalangue è l’universo singolarissimo, lalangue è il luogo della traccia.
Concludo riallacciandomi a quest’ultima opera del 1970, siamo a Modena, il luogo da cui scaturisce una delle invenzioni artistiche più note, che hanno reso celebre Parmiggiani nel mondo, che sono le famose Delocazioni.
Questa scoperta avviene in modo fortuito, racconta Parmiggiani. Mentre sta installando una grande esposizione a Modena, si accorge, liberando i locali, che togliendo gli oggetti dalle pareti, gli oggetti lasciano la loro impronta, questa impronta ha un effetto luce, un effetto luminoso.
Come dire, si accorge che in fondo la presenza delle cose non è non l’ultima parola sulle cose. Si accorge che la presenza è sempre circondata dall’assenza e che l’assenza è una forma di presenza. Come quando vediamo un’impronta su un sentiero di neve, vediamo l’impronta di chi ha camminato prima di noi; è chiaro che non c’è più il piede, ma c’è non essendoci più. Come dire, la traccia è qualcosa che resta pur essendo dissolta. Resta senza restare. È questo il segreto della cenere e del lavoro che Parmiggiani porterà avanti facendo diventare questa scoperta, questa sorpresa, questo incontro fortuito un metodo.
Dunque allestisce i luoghi con oggetti e scatena il fuoco, a volte a rischio di bruciare anche i luoghi dove questo avviene. Diversamente da Burri, il fuoco in Parmiggiani non è un fuoco, come dire, calcolato, perché attaccato alla mano dell’artista, ma un fuoco che si muove con movimenti anche irregolari. Dopodiché il fuoco si spegne, la cenere ha ricoperto gli oggetti e, tolti gli oggetti, resta l’impronta: questa è l’operazione.
Voglio finire proprio su questo. È questo il punto che mi interessa: qui abbiamo un uso particolare della cenere. Derrida definiva la cenere come l’unico elemento che resta anche quando non resta. E Benjamin descriveva l’opera d’arte come un rogo, un rogo che, finito di bruciare, continua a bruciare nella cenere. La cenere dell’opera d’arte in fondo è il fatto che l’opera, pur dissolvendosi, lascia una traccia, lascia un resto, continua a bruciare.
Ecco, voglio concludere su questo punto a proposito dello spirituale: tutto questo lavoro che Parmiggiani fa sul resto, sull’impronta, sulla traccia, tutta la sua poesia che ruota attorno alla cenere, è un’alternativa alla sentenza dell’Ecclesiaste: “voi siete polvere e polvere ritornerete”. Come dire, nella polvere non ci sarebbe più la vita, ci sarebbe la fine della vita. La polvere segnerebbe la decomposizione della vita, dunque la morte, dunque la fine della vita. Invece, nell’uso che Parmiggiani fa della cenere, al centro non c’è la fine della vita ma c’è l’indistruttibilità della vita, c’è l’eternità della vita, l’eternità della vita che continua a vivere anche nella forma della memoria dell’impronta, della traccia che resta. Come dire, quando noi ci muoviamo, certo ci muoviamo nel mondo con la nostra presenza ma portiamo attorno a noi tutte le impronte degli altri che abbiamo conosciuto, tutta la memoria della nostra storia. Queste presenze sono assenze, ma sono costantemente con noi, sono morti e sono vivi. È cenere ma continua a bruciare.
Parmiggiani C. (2010). Una fede in niente ma totale, a cura di Andrea Cortellessa, prefazione di Jean-Luc Nancy. Firenze: Le Lettere, 2019, p. 253.↩